Sabine Weiss. L’essenziale è visibile agli occhi

Sabine Weiss, 2CV sous la pluie, Paris,1957 Courtesy Les Douches la Galerie, Paris

La galleria Les Douches di Parigi propone un’esposizione della fotografa svizzera, naturalizzata francese, Sabine Weiss che, anche se non ha la presunzione di essere esaustiva, tenta di far uscire il suo operato dai cliché con cui la critica l’ha sempre definito.

Certo Sabine Weiss ama fotografare i bambini ma non per questo è solo una fotografa di bambini. Certo ha frequentato Robert Doisneau e il gruppo dei così detti fotografi umanisti ma non per questo va etichettata anche lei come tale. Etichetta che lei stessa dice di non rifiutare, dal momento che è  forte la sua attenzione verso la poesia espressa dall’uomo di strada còlto nella sua quotidianità più semplice ed immediata, ma la trova comunque riduttiva. Per capire il perché forse, prima di osservare i suoi lavori, dobbiamo dare uno sguardo alla sua biografia.

Sabine Weiss, nata Weber in Svizzera nel 1924, inizia ben presto a coltivare la passione per la fotografia. A soli 12 anni acquista la sua prima macchina fotografica con i suoi risparmi. A 18 inizia il suo apprendistato presso l’atelier di Frédéric Boissonnas a Ginevra dove nel 1945 otterrà il diploma di fotografia ed aprirà il suo proprio atelier. L’anno dopo si trasferisce definitamente a Parigi dove diviene l’assistente del fotografo di moda Willy Maywald fino al 1950, anno in cui sposa il pittore americano Hugh Weiss conosciuto l’anno precedente durante un soggiorno in Italia. La coppia si inserisce bene negli ambienti parigini della moda, dell’arte, della letteratura, del cinema e della musica tanto che la Weiss ha l’occasione di fotografare volti di importanti personalità in queste discipline: Igor Stravinsky, Fernand Léger, Francis Scott Fitzgerald, Alberto Giacometti, Robert Rauschenberg, Jean Dubuffet, Françoise Sagan, Jeanne Moreau e Coco Chanel solo per citarne alcuni. Collabora inoltre con importanti riviste europee ed americane tra cui Vogue, Paris Match, Life e Time Magazine. Nel 1952, tramite Vogue, Robert Doisneau scopre il suo talento e le propone di entrare a far parte dell’Agenzia Rapho di cui lui stesso fa parte. Comincerà così a frequentare il gruppo di artisti e fotografi cosiddetti umanisti. La conoscenza del suo lavoro al grande pubblico arriverà nel 1955 quando il fotografo americano Edward Steichen sceglie tre sue fotografie per l’esposizione The Family of Man organizzata al M.O.M.A. di New York. Il suo curriculum da quel momento in poi si arricchirà di mostre internazionali ma, nonostante ciò, resterà sempre poco conosciuta alla massa a causa probabilmente della sua personalità molto schiva e discreta.

È evidente dunque che ci troviamo di fronte ad una fotografa con interessi personali e professionali molto ampi. Trovare un filo conduttore è pressoché impossibile. Ma forse c’è, ed è lei stessa a dichiararlo: «la luce, il gesto, lo sguardo, il movimento, il silenzio, la sosta, la disciplina, lo svago, io vorrei inglobare tutto in questo istante affinché si esprima, con il minimo di strumenti, l’essenziale dell’uomo».

È questo che ritroviamo nelle vie di Napoli, di New York o di Parigi. La strada è contenitore di vita e set fotografico per eccellenza in cui non c’è spazio per la posa o le «facce da fotografo», per dirla come Peter Handke nella sua poesia Quando il bambino era bambino. Tutto è immediato. La spontaneità dei soggetti ritratti per Sabine Weiss è fondamentale quanto la naturalezza della luce in cui sono immersi. È tutto qui ciò che cerca di fissare nei suoi lavori: l’attimo di verità destinato a scomparire. Per questo motivo Sabine Weiss ha sempre rifiutato la qualifica di artista. Lei non crea nulla; è solo un’instancabile ricercatrice e testimone di ciò che gli accade intorno.

Alla luce di questo risulta anche ben centrato il testo di presentazione della mostra dello sceneggiatore Olivier Beer, che dichiara che la Weiss non è una fotografa, ma una realizzatrice di film. Nel vedere le sue foto si pensa a Rossellini, a De Sica e a tutti i maestri della grande tradizione neo-realista italiana. Perché i fatti che racconta non sono mai visti con distacco ma con partecipazione. Lei entra in dialogo con intimità nell’altrui intimità per infondere nel risultato finale, la foto, testimonianza per eccellenza, tutto il suo amore verso la vita.

Info mostra

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Massimo Rosa è curatore d’arte ed ha diretto alcune gallerie italiane. Ama l’arte contemporanea e la filosofia. Attualmente vive a Parigi.

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