Boros Berlino. Da bunker alla sua seconda grande esposizione di arte contemporanea

Awst & Walther

Passeggiare nelle vie che si diramano dalla stazione ferroviaria di Friedrichstrasse è un incontro di palazzi eleganti, negozi alla moda, uffici e architetture moderne. Un luogo dove si rimane piacevolmente incuriositi nel vedere, appena girato l’angolo, un maestoso edificio in cemento armato costellato di piccoli pertugi.
Ma questa è Berlino.
Frammenti di storia che dialogano in un territorio in continuo mutamento rimanendo intatti ad osservare lo scorrere del tempo e delle persone che si muove intorno.
Imponente e simmetrico, con una superficie di 3000 mq, la Sammlung Boros è un ex bunker della seconda guerra mondiale, oggi prestigiosa galleria d’arte privata.
Pianificato nel 1941 da Karl Bonatz e portato a termine l’anno seguente, sotto la supervisione di Albert Speer, architetto personale di Adolf Hitler, la costruzione aveva lo scopo di proteggere da attacchi aerei viaggiatori e staff della vicina stazione di Friedrichstrasse.
Negli anni a venire l’imponente bunker di cinque piani vide modificato il suo utilizzo svariate volte.
Nel 1945 fu occupato dall’ Armata Rossa e divenne prigione di guerra. Successivamente fu utilizzato come magazzino tessile per poi trasformarsi nel 1957 in deposito di frutta tropicale proveniente da Cuba e acquisire in città il soprannome di Bananenbunker.
Dopo la Caduta del Muro, la struttura divenne proprietà del governo federale e nel 1992, in un susseguirsi di serate techno e party fetish, il bunker venne presto riconosciuto come uno dei club più hard al mondo, ospitando inoltre nel 1995 Sexperimenta, esposizione del commercio erotico. Tra feste illegali e party sospesi il club venne presto chiuso dalle autorità e il bunker rimase unicamente spazio a disposizione per eventi teatrali ed esposizioni di arte sino al 2003, anno in cui il collezionista Christian Boros acquistò l’intera struttura per esporre la sua collezione d’arte privata con opere dal 1990 ad oggi e come spazio per mostre temporanee.
Felice esempio di conservazione della storia in un utilizzo contemporaneo, il lavoro progettuale degli spazi intrapreso da Boros durò qualche anno con lo scopo di mantenere un dialogo unico e quasi magico tra il percorso espositivo delle opere d’arte e i segni che la storia ha lasciato alla struttura, come le tracce sui muri delle bombe.
L’idea di presentare le opere d’arte contemporanee della sua collezione porta Boros alla soluzione di creare grandi esposizioni con rotazione quadriennale, così che, una volta pronto il bunker nella sua nuova veste di galleria d’arte, nel 2008 si inaugura la prima grande esposizione, Sammlung Boros #1 che fu visitabile fino al 2012, attirando più di 120.000 visitatori.

Oggi è presente la seconda grande esposizione, Sammlung Boros #2, sostituita dalla terza rotazione delle opere di Boros.
In una fredda e soleggiata domenica di marzo mi ritrovo finalmente davanti all’imponente facciata del bunker in attesa del mio turno per entrare e poter finalmente ammirare le opere attualmente in mostra. Già, il turno. Per visitare l’esposizione bisogna prenotarsi in gruppi di circa 12 persone con obbligo di guida che, gentile e preparata, presenta la storia del bunker e della collezione di arte contemporanea per poi accompagnarti attraverso i cinque piani dell’edificio nel tentativo “disperato” di farti vedere e capire quanto più possibile entro lo strettissimo tempo limite di 1 ora e mezzo. Considerando che parecchi minuti si perdono per la presentazione iniziale, il viaggio attraverso il bunker si trasforma in un meraviglioso ma frettoloso cammino dove rispolverare le nostre doti di ascoltatori unite al ritrovamento di quell’attimo fugace di puro godimento dell’opera. E guai a rimanere indietro. Seguire attentamente il gruppo e divieto assoluto di rimanere soli in una stanza per più di 3 secondi. Forse ho esagerato, ma nemmeno di molto. Veniamo d’altronde istruiti dalla guida appena prima di iniziare il percorso sull’atteggiamento da mantenere, questioni di sicurezza. Il che non si discute, forse allora bisognerebbe aumentare il tempo delle visite.

In mostra oggi alla Sammlung Boros sono figure diverse dell’arte contemporanea, tra cui opere site specific di Klara Lidén, grandi fotografiche astronomiche di Thomas Ruff e un maestosto albero di sei metri di Ai Weiwei composto da vecchi oggetti.
In tutto sono 22 gli artisti presenti: Ai Weiwei, Awst & Walther, Dirk Bell, Cosima von Bonin, Marieta Chirulescu, Thea Djordjadze, Olafur Eliasson, Alicja Kwade, Klara Lidén, Florian Meisenberg, Roman Ondák, Mandla Reuter, Stephen G. Rhodes, Thomas Ruff, Michael Sailstorfer, Tomás Saraceno, Thomas Scheibitz, Wolfgang Tillmans, Rirkrit Tiravanija, Danh Vo, Cerith Wyn Evans, Thomas Zipp.

La prima opera che incontriamo durante la visita è un’installazione di Tomás Saraceno. Artista e architetto, tutto il suo lavoro si concentra sulla ricerca di soluzioni visive e tecniche al fine di creare opere sospese e quasi fluttuanti, capaci di unire modalità di vita a basso impatto ambientale e interazione con il pubblico.
Spostandoci lentamente intorno e dentro l’installazione ideata da Saraceno per Boros abbiamo quasi la sensazione di percepire lo spazio in maniera differente ad ogni nostro movimento.
Corde tese intrecciate a formare oggetti geometrici fluttuanti nello spazio, donando una piacevole sensazione di leggerezza e sospensione che lo spettatore rimane quasi stupito ed emozionato, osservatore di fronte e dentro l’opera di una leggerezza che stupisce all’interno delle pesanti mura del bunker.
In altre opere di Saraceno, non presenti alla Boros, si può addirittura camminare sopra delle bolle in alto nell’aria creando un nuovo modo di vedere il mondo circostante, attraverso più e nuove prospettive. Sentire ogni minima pulsione, anche quella indotta dal movimento degli altri osservatori che interagiscono con l’opera.
L’artista parte sempre da forme naturali per tentare di ridurre la loro complessità e vestirle in modo che possano essere utilizzate e osservate dall’umanità, permettendoci di interagire con le sue strutture e imparare a capire lo spazio con occhi nuovi, attraverso nuove strade e l’esperienza diretta.
Profondamente influenzato dall’architettura utopica degli anni ’60, il lavoro di Saraceno si focalizza sul tentativo di superare le barriere geografiche, comportamentali e sociali, sull’utilizzo della tecnologia per la ricerca di modalità sostenibili per il pianeta. L’analisi di soluzioni sempre più ardite tecnicamente ha portato l’artista a collaborazioni con esperti delle agenzie spaziali europee e americane.
Coinvolgono e giocano con lo spettatore, ma con diversa finalità, anche le opere di Alicja Kwade.
Polacca trasferitasi a Berlino, la Kwade ha utilizzato le tecniche più svariate nel corso della sua carriera artistica, anche se è perlopiù conosciuta per le installazioni e i lavori scultorei.
La realtà è solo una convenzione, una possibilità che la società ha scelto tra tante. L’artista gioca nei suoi lavori con questa idea di realtà, creando spazi dove forse tutto è concepibile.
Numerose e diversificate le opere della Kwade presentate da Boros, quasi a sottintendere un particolare interesse di quest’ultimo per la sua arte e una spinta ad investire su di lei e sul suo lavoro.
L’installazione sonora di Alicja Kwade che troviamo subito dopo la grande opera di Saraceno è affascinante, ma non di immediata comprensione. Una decina di grandi pannelli rigidi e curvi di Plexiglass nero a formare come degli archi occupano una intera stanza del bunker, disposti in modo da creare un percorso dentro il quale muoversi e sentire. Come quinte teatrali che dialogano tra loro, i pannelli hanno di fronte un altoparlante che emette suoni che richiamano la frequenza di fondo dell’universo.

Si dovrebbe ora fare un passo indietro e tentare di accennare all’idea di base che sta probabilmente dietro questa opera. La teoria delle stringhe.
Siamo nel campo della fisica quantistica, o meglio, siamo in un contesto dove si tenta di conciliare la meccanica quantistica con la relatività generale. Secondo la teoria delle stringhe esisterebbero particelle infinitamente piccole, una sorta di filamenti di energia chiamati appunto stringhe le quali, vibrando a frequenze differenti, conferirebbero alle particelle le loro proprietà distintive quali massa e carica. Si implica che tutto ciò che esiste, forze della natura e materia, nasca da una stessa entità, risolvendo in parte il conflitto tra l’immagine caotica dello spazio subatomico della meccanica quantistica e l’immagine lineare dello spazio su larga scala della teoria della relatività.

Per poter costituire tutte le particelle esistenti le 4 dimensioni che conosciamo, dello spazio e del tempo, non sarebbero più sufficienti per poter effettuare tutte le combinazioni necessarie ma, per potersi muovere e vibrare, una stringa avrebbe bisogno di 11 dimensioni, almeno secondo la cosiddetta M-Teoria. Ci sarebbe poi un’altra teoria bosonica seconda la quale di dimensioni ne servirebbero molte di più. Ma non è ora questo il luogo per approfondire tale argomento. Quello che a noi interessa in questa sede è verificare come la Kwade abbia tentato di riprodurre artisticamente il mondo delle 11 dimensioni dove il concetto di realtà viene stravolto. Ci troviamo in silenzio ad ascoltare frequenze come se ci trovassimo per un piccolissimo istante da qualche parte nell’universo dove dialogo e rimbalzo del suono vivono e vibrano con noi.
Percezione della realtà conosciuta e realizzazione di altre realtà esistenti studiate, in corso di verifiche, ma comunque possibili. Anche le altre opere della Kwade che incontriamo lungo il nostro cammino tra le stanze del bunker richiamano sempre, seppur a volte diverse tra di loro, al rapporto tra finzione e realtà.

Improvvisamente, ogni cosa nella sue opere diventa possibile: una lastra d’acciaio rotta sul pavimento in  cemento come fosse vetro, immagini allo specchio che emergono nello spazio tridimensionale come veri e propri oggetti. Mondi paralleli che coesistono armoniosamente in un equilibrio che sembra del tutto casuale ma che in realtà è stato meticolosamente studiato. In una stanza più avanti troviamo ad esempio segmenti di metallo, uno specchio ricurvo e un asse di legno appoggiati al muro in maniera del tutto naturale come se si stessero prendendo una piccola pausa caffè. E ancora incontriamo oggetti come scope o rami che si distorcono o si sdoppiano in un momentaneo respiro dalla loro esistenza fisica, lampade identiche che si baciano allo specchio formando un perfetto mondo parallelo. Il suono dell’opera Singularitat pervade con un accenno quasi inquietante la maggior parte delle stanze del bunker: un grande specchio tondo al centro della parete nasconde un orologio che con il suo ticchettio riporta al ritmo del battito cardiaco o all’illusione di una marcia del tempo senza fine.

Scenari improbabili con protagonisti i più svariati oggetti e le loro convenzioni sociali, ispezionando le leggi della fisica e i rapporti di tempo, spazio e luce in realtà diverse e sempre possibili.

Una maestosa scultura prende possesso di un’intera stanza e la sovrasta e riempie con la sua massiccia fisicità: ci troviamo affascinati davanti ad uno dei famosi alberi di Ai Weiwei. Artista, designer e attivista cinese che a partire dal 2009 realizza una serie di sculture in legno Tree di cui una presente oggi alla Boros Collection. Composta da parti di alberi morti di legno diverso la scultura è tenuta unita da chiodi e bulloni di grande dimensione. Straordinario, intuitivo e scomodo per il suo impegno politico, Ai Weiwei mantiene sempre costante nelle sue opere una potente spinta narrativa. Riconosce nella materia, in questo caso nel legno, un canale per dialogare e affliggere le barriere mentali. L’albero muore ma rimane, è un qualcosa che non si cancella anche se si tenta di nasconderlo. La perdita del senso culturale viene incalzata dalla creazione in chiave artistica di un albero potente che, anche se privo di vita, possiede una fisicità talmente imponente e forte da dare l’idea di poter rompere con i rami le mura del bunker. I bulloni che uniscono i vari pezzi insieme sono ben visibili, così che il materiale morto diventa l’incerta immagine della vita, con tutte le sue spaccature e ferite.

Altro albero, diverso artista. Classe 1979 Michael Sailstorfer è considerato uno degli esponenti dell’arte contemporanea più interessanti delle ultime generazioni. L’impatto visivo delle sue installazioni presentate da Boros è indubbiamente potente. Forst è un albero capovolto, appeso al soffitto dal tronco e fatto ruotare, con i rami che sfiorano il pavimento e producono un dolce rumore. Dolce, inizialmente. L’albero in questione infatti è vero e posizionato per Boros nel 2012. Ora i suoi rami e le foglie sono secche, il suono prodotto dal movimento dei rami sul pavimento si è trasformato, più secco e gracchiante. La macchia a terra, un tempo verde, è diventata grigia.

Consumismo.

Stessa ideologia di base per un’altra sua installazione creata da una ruota di un automobile appesa alla parete e che continua a girare usurando il muro e provocando una polvera nera sul pavimento. Nella stessa stanza troviamo Himmel Berlin, un tentativo di ricreare in arte il cielo berlinese: grandi camere d’aria di gomma d’auto intrecciate tra loro e sospese in aria a formare immensi nuvoloni scuri che occupano con la loro imponenza l’intera stanzetta dalle pareti bianche. E è mentre mi muovo all’interno dell’installazione insieme agli altri visitatori, in una serpentina “alla cieca” e “impegnativa”- strusciandosi con le gomme pronte a colpirti anche in testa ( ma nessuna preoccupazione, sono morbide) che mi torna alla mente Silver Clouds del più lontano 1966 di Andy Warhol.
Interessato dagli oggetti di uso quotidiano, Sailstorfer prende elementi semplici e reali per deformarli, adattarli allo spazio, riassemblarli e reinterpretarli per creare installazioni di forte impatto che vivono e si modificano e muoiono e riprendono vita.
Come nella sala dei suoi popcorn sempre presente alla Boros.

Quando si entra nel bunker si percepisce un vago odore di popcorn e più si avanza con la visita e si passa al piano superiore, più questo odore aumenta. Inizialmente è solo una piccola percezione, ma quando mi trovo difronte all’immagine dorata della bandiera americana di Danh Vo, sono talmente inebriata da riconoscere chiaramente che si tratta di popcorn. Mi guardo attorno, scruto i volti delle persone a me vicine, ma nessuno accenna un gesto da farmi capire di non essere l’unica ad essermi accorta di questo odore. D’altronde siamo nella stanza dedicata a Danh Vo e allora io non so più bene se ho fame e se l’americanità delle sue opere mi sta influenzato a tal punto.

Cerco di allontanare, con difficoltà, il pensiero di patatine, snakes e coca cola al cinema, per osservare finalmente per la prima volta dal vivo, non più in immagini in internet, le opere di un artista non certo semplice e sicuramente in qualche maniera scomodo quale Danh Vo.

Nato in Vietnam ma cresciuto in Danimarca da un padre vietnamita che era fuggito agli inizi degli anni ’70 dalla sua terra per un futuro di speranza, Danh Vo è un artista che avrebbe bisogno di un approfondimento maggiore per poter comprendere al meglio tutta la sua opera, il suo concentrarsi sul sogno e sull’idea astratta che è l’America, sull’equivoco, sulla diversità, sull’idea di lingua madre e sulle difficoltà che si incontrano nell’imparare altri linguaggi e modi per esprimersi generando a volte ambiguità e fraintendimenti in una società che è sempre più variegata e diversa. Vive tra Berlino e New York , il suo è un lavoro di riscritture per assimilare tragedie e sofferenze umane, di indagine e di messa in discussione. Basti pensare al suo progetto a lungo termine di sposare continuamente persone dalle quali subito divorzia, prendendone i nomi, indagando sulla vastità di documenti e quindi sulla vastità d’identità, ridiscutendo personalmente il concetto di libertà. Danh Vo crea paradossi, sfida le convenzioni, procede spingendosi con un piede sempre al di là per testare i concetti e mettere alla prova. Ma non dà interpretazioni, tanto meno ne vuole dagli altri verso il suo lavoro. Sfida anche il livello simbolico regolato dalle istituzioni, come nel caso della frantumazione della Statua della Libertà. La sua replica in rame in scala 1:1 viene sparsa in pezzi in luoghi diversi, un esempio lo troviamo anche qui alla Boros, , esattamente come accade per l’idea di libertà.

Danh Vo decostruisce, cita la storia attraverso metodi inconsueti, esplora mantenendo l’attenzione sui vari processi di scrittura e della lingua, apre differenti livelli di lettura.

Tanto altro ancora si potrebbe dire sulla sua arte, vorrei rimanere più tempo ad osservare le sue opere, il pezzo della ricreazione della Statua della Libertà pervaso da questo odore ancora di pop corn che ormai credo sia suggestione, o forse c’è un bar nascosto in qualche angolo del bunker che non ho notato?

Invece no, i pop corn ci sono. La guida si è guardata bene dal dire qualcosa in merito per una sorta di effetto sorpesa, ma ci sono e tanti. Una stanza piena di pop corn che escono da una macchina automatica. Poco più avanti delle opere di Danh Vo.

Accesa dall’inizio dell’esposizione nel 2012 tutti i giorni e tutto il giorno, il carretto pop corn di Sailstorfer ha riempito ora la stanza, inizialmente vuota, formando un’allegra e profumata montagna di un simbolo americano in un’ottica legata sempre al consumismo, che però un sorriso ce lo fa strappare.

Passando dalle grande immagini fotografiche di Thomas Ruff, si arriva a Teenage Room dell’artista svedese Klara Lidén, riproduzione di una cameretta di un adolescente in stile Ikea ma il tutto nero e terrificante, da una parete una minuscola porticina da dove scappare da questa visione tanto tetra quanto angosciante, che aveva rappresentato la Svezia alla Biennale di Venezia del 2009.

Salendo ulteriormente di piano troviamo diverse opere del fotografo tedesco Wolfgang Tillmans, il primo artista non inglese a vincere nel 2000 il Turner Prize e noto per la sua attenzione alla sottocultura giovanile londinese. Le sue inquadrature, apparentemente spontanee, sono sempre attentamente studiate, con particolare attenzione al dettaglio e all’abbinamento dei colori, come possiamo notare in Supermarket.

Ancora altri artisti e altrettante opere nel corso della visita, da citare ancora la curiosa coppia tedesca, nell’arte e nella vita, Awst & Walther che con le loro sculture, eventi e installazioni denotano una grande attenzione nell’utilizzo degli spazi. Il loro studio nel quartiere Wedding di Berlino ha il sapore di un piccolo negozio, un rifugio con i suoi libri e bicchieri di caffè, alle pareti disegni tecnici per progetti. Le loro opere includono sempre un coinvolgimento dello spettatore, critico o fisico che sia.

Nonostante l’apparente semplicità delle loro invenzioni, ogni elemento trova una giustificazione e un senso, tutto è rigorosamente studiato. Progettato alla Boros Collection il lavoro Latent Measures gioca con la costruzione – decostruzione dell’architettura: tubi di metallo passano da una parete all’altra della galleria, lasciando l’intonaco leggermente rovinato nel punto di passaggio da una stanza all’altra. I tubi sfidano l’impenetrabilità delle pareti, aprono vie in un percorso che per lo spettatore è ostruito, sfondano il limite della fisicità, come la piccola Alice nel paese delle meraviglie quando mangia il fungo e cresce – cresce fino a rompere le mura e il tetto della casa. E allora l’invito è quello di ripensare lo spazio e al modo in cui noi ci muoviamo al suo interno. Come in The Line of Fire: un foro alla parete di due metri di cemento del bunker, dal quale possiamo scrutare l’esterno. Intravediamo le foglie degli alberi da questo piccolo spiraglio; se avviciniamo l’orecchio sentiamo il vento. Ma appena ci rivoltiamo all’interno della stanza, nella parete opposta una freccia in bronzo piantata al muro, come fosse stata lanciata dall’esterno all’interno del vulnerabile bunker e avesse creato il foro dal quale guardavamo.

Guardando la stanza vuota, con la sola freccia conficcata nella parete di sinistra e il foro sulla destra ci si trova in un silenzio rumoroso…di quelle parole, lamenti e gioie mute che vengono da lontano e anche da molto vicino. Un legame di storie e di significati. Una stanza dove rimanere qualche minuto in più, ma che purtroppo non è possibile al momento.

Staccandoci da un mondo e dalle sue emozioni incontriamo uno degli ultimi artisti, il berlinese Dirk Bell con una serie di disegni che rivisitano generi tradizionali, la rappresentazione simbolica della figura umana e crea in una piccola stanzetta del bunker un grande disegno sull’intero basso soffitto. Un universo intimo popolato da creature mitologiche, cigni, corpi ed elementi naturali che si riflettono in un grande specchio al pavimento. Una lampada appesa al soffitta e sempre accesa risulta essere il solo punto fermo, la stella fissa nel caos dell’universo.

Tanti artisti di fama e giovani forse meno noti ma già conosciuti a livello internazionale e sui quali continuare ad investire, molti nomi che lavorano vivono e hanno a che fare con Berlino in un contesto non facile quanto carico di suggestione e di potenza espressiva quale è il bunker Boros.
Un magnifico viaggio dove arte contemporanea e storia si intrecciano, dialogando, rispettandosi, parlandosi ognuno con la propria voce, a volte mute come i segni di una guerra che rimane a guardarci.
Alla Sammlung Boros si entra per un attimo in un mondo quasi ovattato, inebriati da opere d’arte innovative, installazioni, sperimentazioni continue.
Un appuntamento da non perdere quando si viene a Berlino… in attesa della grande terza esposizione.

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Lucia Rossi, laureata in Arte, Spettacolo e Immagine Multimediale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Parma, è scrittrice, contributing editor per riviste d'arte, curatrice di mostre. Vive e lavora a Berlino. Ha diverse esperienze come curatrice indipendente di eventi culturali e collaborazioni per cataloghi d'arte e pubblicazioni.

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