Paola Igliori. Poetessa e scrittrice, fotografa e filmmaker, manager culturale, inesauribile viaggiatrice

aperitivo a casa di Paola Igliori, New York (ph Manuela De Leonardis)

C’è sempre un qualcosa di squisitamente informale, ma equilibratamente raffinato nelle scelte di Paola Igliori. Che sia a piazza Vittorio – nel cuore multietnico di Roma, città dove è nata – nell’East Village a New York, oppure nella dimora storica di Villa Lina a Ronciglione (che suo nonno Ulisse acquistò negli anni ’20, per donarla alla moglie Lina in occasione del suo 29° compleanno), l’attenzione al dettaglio è sempre accurata, mai forzata. E’ il frutto di un fluire continuo tra esperienze, affinità elettive, empatie di questa donna poliedrica, poetessa e scrittrice, fotografa e filmmaker, manager culturale e, soprattutto, inesauribile viaggiatrice.

“Non sono mai rimasta in un posto. Tutta la mia vita è stata sempre un andare e venire, da quando ho iniziato a concepire questa possibilità. A 11 anni ho iniziato a prendere lezioni d’inglese dall’assistente di mio padre. E’ stato il modo per uscire dalla prigione romana di un padre molto padrone, che era anche un intellettuale di grande apertura mentale. Eccetto, però, per quello che riguardava la vita quotidiana delle figlie!

Così racconta Paola mentre prendiamo l’aperitivo nel giardino della sua casa di New York, sulla 6th Street a due passi da quella di Kiki Smith. Salmone affumicato, mozzarella marinata con pomodori secchi e basilico, crackers integrali su cui spalmiamo la taramosalata (piatto tipico della cucina greca, turca, israeliana e anche rumena a base di uova di carpa in salamoia con limone, cipolla, agio e olive) sorseggiando un bicchiere di Sauvignon cileno.

L’esperienza newyorkese, dove Paola Igliori ha vissuto stabilmente dagli anni ’80 fino al 2003, all’inizio con l’ex marito Sandro Chia – noto protagonista della Transavanguardia – padre di suo figlio Filippo (nato nel 1983), è stata particolarmente ricca di incontri. Uno è certamente quello con la fotografa Jeannette Montgomery Barron autrice, negli anni ‘80, del bellissimo ritratto in bianco e nero, pubblicato nel suo libro Scene (2013). La didascalia riporta che Paola indossa un abito di Stephen Sprouse, ma lei precisa che è di Maripol: ne aveva fatto uno per Madonna e io ho preso l’altro!.

Un altro incontro significativo fu con il poeta René Ricard con cui fiorì un’amicizia difficile ma, creativa e duratura che sfociò nella realizzazione del libro Trusty Sarcophagus Company.

“Quando la casa di René prese fuoco e lui visse per un periodo nella Metropolitana, per sentirsi ancora vivo invece di scarabocchiare le sue poesie su pezzetti di carta, prese a raccogliere tra i rifiuti grandi pezzi di cartone su cui scriveva degli haiku calligrafici e pittorici che mi mostrava venendomi a trovare in questo stesso appartamento in cui stiamo prendendo l’aperitivo! Spesso me li lasciava ed io inizia a fare delle Polaroid di ognuno. Il libro nacque così.”

Grande maestro di trasmissione di energia fu, in particolare, il Dott. Mishra, autore di The Textbook of Yoga Psychology, un importante testo di yoga. Nel suo ashram di Monroe, New York, Paola che lo frequentava spesso portando con sé il piccolo Filippo, oltre che alle conoscenze Vediche e alle pratiche energetiche ebbe modo di frequentare monaci Tibetani vicini al Dalai Lama, come pure gli Indiani d’America, conoscendo dei veri amici come Jane Reinreich, fondatrice dell’Institute of Psychogenetics, e suo marito il fisico teoretico Jeff Tollaksen.

Insomma, un’atmosfera quanto mai fuori dagli schemi e feconda, quella dell’East Village, un quartiere che è molto cambiato negli anni, ma che mantiene un suo carattere, come constatiamo riprendendo la nostra chiacchierata sedute su una panchina di Tompkins Square con il sottofondo delle cicale e il cinguettìo degli uccelli che si fondono con le voci dei bambini in un caldo pomeriggio di agosto. Riprenderemo le fila del discorso ad una certa distanza spazio/temporale, sotto gli ulivi e i ciliegi in fiore del parco di Villa Lina, nella Tuscia, dove Paola ha portato anche il ricordo del Senegal, dove pure è di casa avendo sposato nel 2008 l’artista Massamba Fall Sy, membro della confraternita sufi africana del Baye Fall. Le tovaglie sono di tessuto wax printend e provengono proprio da lì (la coppia ha aperto una guest house di turismo culturale Keur Bayefall nella foresta della Casamance) e trovano una perfetta collocazione nella sala con il camino, accanto alle pareti che tracciano cromaticamente il sentore delle spezie.”

Avevi 19 anni quando, a Roma, hai incontrato Sandro Chia in un negozio di Campo de’ Fiori…

“Sì, oltre che tradurre per Italia Nostra avevo trovato un lavoretto in un negozio di abiti vecchi che si chiamava La Pulce. Un giorno entrò Sandro insieme a Tina Aumont, una bellissima attrice con cui all’epoca aveva una relazione. Tina era pesantemente coinvolta con l’eroina e Sandro si stava allontanando da lei. Cominciò subito ad affascinarmi e con lui me ne andai via di casa. Mio padre non approvava la mia scelta e mi disse che non avrei più rimesso piede a casa sua. Mi avrebbe diseredata! Ma io ero convinta. Un anno dopo, però, ebbi un momento in cui tentai il suicidio. Per mesi avevo messo da parte i sonniferi di mia nonna, perché sentivo che c’era un abisso tra il mio mondo interiore e l’esterno, e sentivo di non avere gli strumenti per superare questo abisso, finché un giorno decisi che volevo vedere cosa ci fosse dall’altra parte. Era gennaio – ancora lo ricordo – andai a Ponte Sisto e mi sdraiai sul lungofiume di marmo, guardavo le stelle. Avevo bevuto del rhum, avendo sentito dire che con l’alcol i sonniferi facevano effetto più rapidamente. Quando sentii che stavo perdendo conoscenza, camminai verso il fiume per entrare nel flusso dell’acqua. Ma non ci arrivai. Un mendicante mi trovò assiderata. Mi risvegliai non so quanto tempo dopo. Quando vidi mia madre dissi: Oh mamma mia! Non sono dall’altra parte, sono ancora qui!”

Tornare in campagna, a Villa Lina, fu rigenerante…

“Decisi di andare a vivere in campagna perché volevo ritrovare le radici e la connessione con la natura. Sentivo che solo questa dimensione avrebbe potuto aiutare a riequilibrare quel baratro tra me e il mondo. C’è da dire che non venivo da un’infanzia non facile, perché a 13 anni fui operata alla spina dorsale. Per cui quando tutte le altre ragazze si connettevano con il maschile, io trascorrevo un anno e mezzo letto con il gesso. Ricominciai a camminare a 14 anni. Ma in quell’anno e mezzo lessi quasi tutti gli autori che avrei continuato a leggere per tutta la vita: Kafka, Joris-Karl Huysmans, Gogol… Mi sforzai anche a leggere Shakespeare, finché non ci riuscii fluidamente. Erano i miei viaggi interiori. Ricordo che ero timidissima e, prima che mi mettessero il gesso, dovevo prendere la mano di mia sorella anche quando attraversavo una stanza. Non riuscivo ad avere un dialogo con i miei coetanei, piuttosto con gli adulti che frequentavano casa arrivavo a stabilire anche rapporti profondi. Mio padre era un uomo di enorme sensibilità, grande conoscitore e collezionista d’arte. Aveva iniziato a scrivere un libro su Bernini pittore, ma dovette rinunciare a questa passione per lavorare per il patrigno nelle costruzioni. Era comunque molto amico di tanti storici dell’arte, tra cui Federico Zeri, Giuliano Briganti, Mina Gregori.

Una volta venne da noi anche Sir Anthony Blunt, esperto di Poussin, che poi scomparve misteriosamente in Russia. Questa era stata la mia infanzia, e quando – dopo il tentativo di suicidio – mia nonna mi autorizzò ad andare a Villa Lina, scoprii anche l’amore e la disponibilità che le persone del paese avevano all’interno della famiglia. In particolare quello dei genitori verso i figli. Rimasi colpita da tutto ciò, perché da piccola avevo una madre e un padre che non vedevo mai. Eravamo cinque figli – Benedetta, Gaia, Ulisse, Alessandro ed io – immersi nell’enorme solitudine di una grande casa, a Roma, con tante stanze piene di quadri, ma completamente vuota. Trascorrevamo il tempo con tate sconosciute che cambiavano spesso. Ogni sera i nostri genitori ci lasciavano dei bigliettini di saluti e abbracci. Li vedevamo la domenica, quando la tata di turno ci accompagnava a salutarli. Invece, vedere che c’era qualcosa di diverso – l’amore, l’affetto, qualcuno che cucinava per l’altro – è stato l’inizio del risanamento. In campagna c’era anche Mariangela, la mia seconda madre, donna straordinaria che andava a raccogliere le rape a 12 anni e a 14 lavorava nelle cartiere. Il primo film che avrei voluto fare Cade il cetriolo e va in culo all’ortolano doveva essere su di lei. Avevo fatto delle bellissime interviste con le musiche delle raccolte, però lei è morta prima che riuscissi a ultimarlo. A Villa Lina mi occupai dell’azienda agricola che in cinque anni divenne un’azienda modello. L’infinita abbondanza della natura mi ha aiutata moltissimo. La natura è grande maestra. Ho imparato tanto soprattutto parlando con gli anziani e, attraverso i loro diversi punti di vista, ho trovato il mio. Ho appreso, ad esempio, la differenza tra una potatura a piramide, oppure a vaso di limoni. In fondo, è lo stesso metodo che poi ho usato per i miei libri, in cui intervistavo i personaggi lasciando che fosse la loro vita – la loro indole – a parlare.”

Citi spesso come modello due donne di grande carattere, la tua nonna materna Elena Rospigliosi sposata Lante Montefeltro della Rovere e nonna Lina…

“In realtà c’è anche mia madre Angela Lante Montefeltro della Rovere che mi è stata molto vicina e mi ha dato tanti doni. Tra questi il parlare con la creazione come se fosse un essere senziente e la connessione con gli antenati e il loro bagaglio genetico. Sua madre, mia nonna Elena Rospigliosi (Nellie) era una donna di grande spiritualità. Era povera ma generosissima. Mi ricordo che quando il suo frigo era quasi vuoto mi diceva:

 Paoletta invita una tua amica, finiamo tutto, la Provvidenza ci penserà.

Puntualmente, tutte le volte, la mattina dopo o arrivava una lettera dal Sudamerica, dove erano emigrati tre dei miei zii, con dentro un biglietto da 100 dollari, oppure la sua grande amica Iris Origo giungeva portando il sostegno di altre donne scrittrici. Anche la fede nel sostegno continuo della Provvidenza è stato proprio un grande dono! Quanto a Lina, in realtà, era la sorella della mia vera nonna, che morì quando mio padre aveva otto anni. Era nata Evelina Ciliberto, si sposò con Ulisse Igliori e adottò mio padre Massimo. Il cognome che porto, quindi, non nasce da un legame di sangue. Villa Lina prende il nome da lei, donna di carattere che aveva il dono della visione. Era una ragazza calabrese-abruzzese cresciuta a Roma che, pur avendo fatto solo fino alla terza media, aveva una straordinaria intelligenza, volontà ed un incredibile intuito verso la qualità. Era molto bella, tanto che anche D’Annunzio s’innamorò di lei e le scrisse: A Nidiola lontana mille milioni di anni luce. Suo marito, medaglia d’oro della prima guerra Mondiale, era un fascista della prima epoca. Era stato capo degli Arditi di D’Annunzio a Fiume con Marinetti, poi negli anni ’30 si era dedicato all’imprenditoria e aveva costruito numerosi edifici, tra cui la Casa dei Mutilati e Invalidi di Guerra progettata da Piacentini. Anche la sua storia non era stata facile, perché era il figlio illegittimo di una professoressa di liceo di Firenze che, alla fine dell’Ottocento, aveva conosciuto in treno un conte siciliano e si era innamorata di lui. Il conte Orlando aveva ricambiato il suo amore, ma aveva 9 figli da una moglie siciliana che non avrebbe mai lasciato. La seria professoressa rimase incinta, si nascose la pancia e, durante l’estate, ebbe una figlia che diede a balia a dei contadini in Maremma, dopodiché – nel 1895 – ebbe dal conte un secondo figlio, Ulisse. Il loro era stato proprio un grande amore! Anche questo figlio fu messo a balia dagli stessi contadini. La professoressa, la loro madre, andava a trovare i figli e loro la chiamavano la signora, senza sapere chi fosse realmente. Finché il ragazzo, che era particolarmente indisciplinato, a 13 anni fu messo dalla signora su una nave, a Genova, e mandato a fare il mozzo. Puliva le navi dirette in Sudamerica. Fece questa vita avventurosa per qualche anno poi, tornato in Italia, partì volontario per la guerra. Durante la prima guerra mondiale gli fu conferita la medaglia d’oro al valore militare, perché aveva difeso una collina dagli austriaci, mentre tutti gli altri soldati italiani erano morti. Durante quella difesa gli austriaci gli tagliarono un braccio da sveglio. Forse anche per questo aveva un grande controllo sul dolore. Ma era una persona estrema. Mio padre non andava d’accordo con lui e giovanissimo diventò partigiano, andando via di casa a 16 anni. Nonna Lina gli portava da mangiare di nascosto nell’appartamento che aveva preso in affitto. Lo condivideva con un ragazzo poco più grande di lui. Mia nonna – che era una visionaria – gli diceva che avrebbe sentito parlare di quel suo compagno che si chiamava Federico Fellini. Al piano di sopra, invece, c’erano Nenni, Saragat e Pertini. Un posto in cui si erano concentrate attività, in un certo senso, d’avanguardia politica e culturale.”

Questa vocazione di storyteller, anche attraverso gli intrecci di storie familiari, si manifesta in particolare nel tuo primo libro Entrails, Heads & Tails (Rizzoli, 1991): una raccolta di interviste sui generis, rispetto alla formula domanda/risposta, a grandi artisti: Louise Bourgeois, James Turrell, Enzo Cucchi, Vito Acconci, Cy Twombly, Gilbert&George, Francesco Clemente, Sigmar Polke, Julian Schnabel e Wolfgang Laib.

“Ho iniziato a raccogliere le interviste nel 1986, quando Sandro ed io chiudemmo. La fine della storia fu una grande sofferenza, anche se la decisione era stata mia. Per anni avevo pensato che il nostro rapporto fosse totale ed eterno, con l’assolutezza calabrese presa da mia nonna. Ma poi mi dovetti proteggere con intenso dolore dall’impossibilità di questo rapporto che era come quella di un piccolo albero sotto un grande albero. Le continue mutilazioni improvvisamente diventarono inaccettabili, quando in un attimo – un giorno – la goccia fece traboccare il vaso. Questo grande dolore mi portò ad un’instancabile ed inarrestabile esplorazione di quella terra incognita da cui scaturisce la sorgente dell’ispirazione. Però, solo dopo aver realizzato il libro –  il mio lavoro procede sempre in modo organico, non so mai dove va a finire – capii che allora era stata una necessità, per me, entrare nella quotidianità degli artisti. Il titolo è altrettanto significativo: in italiano vuol dire viscere, teste e code. Volevo affrontare le pulsioni creative, la visceralità, la sessualità, la mente e il cuore. Cercavo di capire se la creatività e la distruttività devono andare necessariamente mano nella mano, oppure no.

Mi sono rivolta a personaggi molto diversi fra loro per entrare mel labirinto della creatività, tornando a parlare con loro per mesi – con alcuni per anni – almeno una volta al mese, così da entrare nella routine, nelle radici, nelle dinamiche della loro creatività nella vita quotidiana. Con ognuno di loro questo percorso è avvenuto in maniera intuitiva, in un’intimità al di fuori del tempo. Iniziai con Louise Bourgeois che, traumatizzata dalla distruttività, cercava continuamente di rammendare quelle lesioni che arrivavano dall’infanzia. Parlava del suo isolamento che mi ricordava un po’ il mio e che, quindi, capivo bene. Tu demandes trop. Pourquoi? (Domandi troppo, perché?) mi scrisse in rosso su un foglio a quadretti. A Londra intervistai Gilbert & George, che sono come un’unica persona, zen degli estremi. Conobbi anche Francis Bacon: andammo insieme nel suo studio, lui – davanti ad uno specchio molto nebuloso – prese del grasso nero che era sul lavabo e se lo mise sulle sopracciglia. Poi uscimmo. Fu una serata molto interessante, però poi non se la sentì di fare un lavoro di interviste continue. Mi sarebbe piaciuto lavorare anche con Joseph Beuys che, insieme a Lucio Amelio, veniva sempre a casa mia a Capri. Festeggiò un suo compleanno sotto l’albero di limoni e il giorno dopo mi diede una scatola di legno con dentro una lampadina e un limone, dicendo che era il primo prototipo della sua Capri Battery (1985). Amavo molto Beuys con cui condividevo l’interesse per le erbe aromatiche e officinali. Parlavamo molto dei loro poteri e, come dicevo, mi sarebbe piaciuto intervistarlo ma purtroppo dopo poco si ammalò. Quanto a Cy Twombly, a cui ero molto vicina, abbiamo avuto un bellissimo rapporto anche se lui era molto difficile Cy aveva una profonda sensibilità, ma anche una grande impazienza verso le cose e le persone. Quando accettò di fare l’intervista mi parlò molto dei suoi primi anni in Italia, a Procida, alla fine degli anni ’50. Però quando il nostro lavoro finì, un giorno mi chiamò al telefono e mi chiese di non pubblicare niente di tutte quelle parole. In momenti diversi scrisse quelle free scribbles che ho pubblicato nel libro. Non fu facile per me intervistare quegli straordinari artisti, feci un grande sforzo per superare la mia incredibile timidezza. Ad esempio Sigmar Polke non aveva mai rilasciato interviste. Furono Jacqueline Burckhardt e Bice Curiger, mie care amiche che nel 1984 avevano dato vita a Parkett Magazine, che erano molto vicine all’artista a parlargli di me. Lui mi invitò nel suo studio, così volai in Germania e rimasi lì per cinque giorni o forse una settimana. Nella retrospettiva del MoMa ci sono anche alcune foto che gli feci in quell’occasione.”

L’approccio intuitivo, quindi, è importante quanto la fotografia, a cui è affidata la memoria dell’incontro…

“Sì, il mio approccio è sempre stato intuitivo. Ancora oggi cerco di non prepararmi mai e di pormi davanti a ciò che non conosco, e magari non capisco, con i ricettori tutti aperti. E’ un modo organico per incontrare un’altra sensibilità e sorprenderci insieme. Ho sempre cercato di allargare le cuciture delle discipline, dei rapporti, delle interazioni. E’ stato come un cucire un vestito patchwork con tanti pezzi diversi. Entrails, Heads & Tails, come gli altri miei libri, ha la particolarità di avere diversi punti di vista e livelli che ognuno può leggere in maniera autonoma. Quanto alla fotografia, ho sempre pensato che le parole e le immagini insieme avessero un grande potere e che, quindi, nell’entrare nello spazio compreso tra l’ispirazione e le radici della creatività nel quotidiano, la fotografia sarebbe stata fondamentale. Ho sempre amato il linguaggio fotografico, ma non sono una fotografa. Scattai le mie piccole snapshots a colori, ma fu molto importante anche avere le immagini in bianco e nero di un fotografo professionista. Conobbi Alastair Thain, che allora aveva 21 anni e sviluppava le sue foto in una vasca da bagno, a Londra. Me lo presentarono Gilbert & George. Gli dissi che sarebbe stato il mio occhio e avrebbe fotografato anche cose apparentemente inutili, come calze rammendate o ramoscelli piegati, ma che avrebbe avuto l’opportunità di ritrarre quegli straordinari artisti. Per un certo tempo lui mi seguì sbuffando, un po’ scontento, ma poi nel 1991 pubblicò il suo stupendo libro di ritratti Skin Deep: The Portraits of Alastair Thain.”

Con Chocolate Creams and Dollars (1992), ultima collaborazione di Paul Bowles con lo storyteller marocchino Mohammed Mrabet, inizia la tua avventura di editrice con la Inanout Press di cui sei stata fondatrice…

“Andai apposta a Tangeri per incontrare Bowles, perché sapevo che aveva già tradotto due scrittori analfabeti e mi interessava molto l’idea antica del cantastorie. Ecco perché il mio primo libro da editrice (insieme alla mia amica, l’artista Michelle Zalopany, avevo fondato la Inanout Press) è stato sullo scrittore analfabeta Mohamed Mrabet, che la sera registrava con il registratore quello che sentiva durante la giornata. Bowles l’ha tradotto e io l’ho pubblicato. Il titolo vuol dire bigné al cioccolato e dollari, ovvero quello che gli americani avevano lasciato in Marocco. Questo paese, per me, è stato un ritrovare qualcosa di un bagaglio forse genetico, con i suoi souq pieni di stimoli: odori, sapori, colori. E Bowles era l’essenza di tutto questo. Ho amato molto questo straordinario scrittore ed etnomusicologo di grandissima sensibilità. E’ stato lui ad introdurmi alla musica estatica nordafricana, ma anche alla pratica delle guarigioni degli Gnawa in Marocco, etnia che veniva dal sud (Mali, Nigeria) e praticava la trance attraverso gli strumenti a fiato (gilala) o a percussione (gnawa). Probabilmente gli Gnawa erano arrivati come schiavi, ma avevano assunto un ruolo chiave nella società marocchina, perché tutte le guarigioni e purificazioni avvenivano attraverso la loro musica. Insieme a Paul ho filmato alcuni di quei momenti e poi ho continuato da sola. In Marocco iniziai anche a scrivere poesie. In quel periodo vivevo con Tristano di Robilant che era non solo un giovane artista molto bravo, ma anche uno straordinario poeta di grande e sottile sensibilità. E’ stato lui ad aprire questa mia vena poetica. Allora scrivevo come degli haiku, ricorrendo all’inglese per perdere la meravigliosità della lingua italiana. Volevo arrivare all’essenza con poche parole.”

A John Trudell (1946-2015) e Harry Everett Smith (1923-1991) sono dedicati i libri che hai pubblicato successivamente: John Trudell. Stickman: Poems, Lyrics, Talks (1999) e American Magus. Harry Smith a Modern Alchimist (1996). Due personaggi che rappresentano un’America lontana dai cliché…

“A New York, nel 1989, frequentavo l’American Indian Community House che è la casa degli indiani-american urbani. Volevo entrare in relazione con il loro mondo dove la natura, le relazioni ed i valori erano ancora vivi. Lì mi connessi con varie persone per me profondamente importanti, per primo Spirit Eagle, grande maestro del quotidiano, nonno Comanche che ha vissuto per 17 anni con me e Filippo nella nostra casa di New York fino al 2013, quando ha lasciato il corpo. Anche Leota Lone Dog, antropologa culturale Lakota, ha vissuto da noi. Andando a visitare sua cugina nella riserva di Green Grass in South Dakota dove conobbi Orval Looking Horse, capo spiritule dei Lakota e Wallace Black Elk, nipote di Alce nero. Quanto all’incontro con John Trudell fu decisamente folgorante! Non sapevo chi fosse, ma ricordo che mi colpì come le sue parole semplici e dirette avessero uno straordinario potere di dare orecchie al cuore. John era uno straordinario essere umano, un grande attivista politico che ha dedicato la sua vita a trasmettere consapevolezza per riattivare la connessione con lo spirito e con il vero potere. Nel 1969, quando era solo un ragazzo, partecipò all’occupazione indiana dell’isola di Alcatraz. Gli occupanti volevano mostrare che le riserve che gli erano state date erano come quella prigione, una pietra dove nulla cresceva. Tennero in scacco il governo americano per un anno e mezzo con le loro emissioni radio: Radio Free Alcatraz. Avrebbero voluto negoziare con loro, ma i federali non accettarono mai e, alla fine, li accerchiarono. Successivamente John fu uno dei fondatori e leader dell’American Indian Movement. Dopo Wounded Knee, nel 1979, durante una manifestazione pacifica davanti al palazzo dell’FBI, bruciò la bandiera americana dicendo che i valori che questa portava erano dissacrati dal comportamento del governo americano B.I.A. (Bureau of Indian Affairs) all’interno delle riserve. Lì succedevano cose terribili. Ad esempio, era successo che alle donne indiane che erano andate in ospedale erano state tolte le ovaie, senza che ne fossero al corrente. Insomma, John con quel suo gesto radicale attirò l’attenzione della stampa su varie problematiche. Anche sua moglie, Tina Manning, era un’attivista. Aveva lasciato la riserva per studiare legge e, dopo esser diventata avvocato, era tornata per aiutare la sua tribù Shoshone Paiute in Nevada. Una notte la loro casa nella riserva prese fuoco. Fu un incendio doloso, anche se mai provato, e lei perse la vita insieme alla sue tre figlie, alla quarta che aveva in grembo, e alla madre. Dopo questa terribile tragedia John uscì fuori di testa. Finché, dopo un anno, l’incontro con Jackson Brown e Bonnie Raitt lo spinsero verso la musica con cui accompagnò le sue straordinarie lines. Formò la band Bad Dog con cui continuò a fare attivismo politico, ma poetico. Dylan definì il suo album A.K.A. Grafitti Man (1992) il migliore dell’anno. Dal discorso sulla sopravvivenza del 1980 alle sue liriche, insieme ad un’intervista di 33 pagine fatta con lui è nato il libro Stickman: Poems, Lyrics, Talks. Quel progetto, durato due anni, ci ha uniti in quello che è stato il rapporto più profondo della mia vita. Purtroppo John ci ha lasciato l’8 dicembre 2015, ma il suo spirito di grande guerriero e più vivo che mai. Ogni sua parola è impressa indelebilmente nel mio cuore ed in tanti cuori. Sono tanto grata di poter essere stata una parte di strumento, perché le sue parole ed il suo spirito continuino ad essere attivi e giungere lontano.”

Arriviamo, infine, a Harry Smith: American Magus è stato pubblicato anche in Italia nel 2003. Sulla sua vita hai realizzato, inoltre, il documentario di 93 minuti che è stato presentato a vari festival, dal newyorkese Anthology Film Archive di Jonas Mekas a Sulmona Cinema. Anche Bob Dylan, fin dal suo primo album dove tre canzoni erano tratte da The Anthology of American Folk Music, ha reso omaggio a questo incredibile uomo

“Harry Smith era un genio di portata incredibile. Aveva una vera mente rinascimentale: è stato il Leonardo da Vinci del XX secolo! Filmmaker straordinario, ma anche pittore e antropologo molto legato alla magia naturale, alchimista, mago, grande raccoglitori di sedimenti di attività umana in moto. Guardava sempre alle serie e alle dinamiche delle cose e le raccoglieva, perché era un grande collezionista. Quando una volta si ruppe la gamba ed era a casa di Allen Ginsberg, disperato fece un buco alla finestra e con il microfono registrò i ritmi degli uccelli durante la giornata, così come registrava i rantoli quando viveva nelle camerate per homeless della Bowery Mission a New York. Registrava i ritmi della vita e della morte nelle sue straordinarie collezioni di cui, nel mio libro, ho messo solo una piccola parte. Il Getty Museum di Malibù ha tutto il suo archivio. Dieci anni dopo la sua morte, nel 2001, fu proprio questo museo – quando lo Smithsonian ripubblicò la sua Anthology of American Folk Music (1923-1991) – a dedicargli una grande mostra. La sua Antologia è una specie di system flowchart (sistema di diagramma di flusso) che raccoglie tutta la musica americana, dalle ballate di lavoro, da cui proviene la musica nera di preghiera, alle Child Ballads medievali. Nel libro ho raccolto una serie di interviste a persone che avevano avuto stretti rapporti con lui, come Allan Ginsberg, Jonas Mekas, Robert Franck. Ciascuno conosceva aspetti diversi della personalità di Harry Smith. Io avevo sentito tanto parlare di lui da Allen Ginsberg che lo considerava la mente più cosmica, insieme a William Burroughs. Mi aveva descritto le sue collezioni di tarocchi, di uova di pasqua con i simboli sciamanici di una certa parte della Russia, il suo modo di trovare archetipi di conoscenze. Insomma, ero del tutto affascinata da questo personaggio prima ancora di conoscerlo. L’occasione arrivò quando Harry tornò a New York. Il suo appartamento era al 3° piano del Chelsea Hotel. In quello stesso edificio, ma al 9° piano, c’era la sede della mia casa editrice Inanout. Essendo piuttosto timida, però, non sapevo come approcciarlo. Quando, poi, un giorno trovai per strada un pacco di vecchie carte di musicisti blues come Blind Lemon Jefferson e Robert Johnson, pensai subito che gli sarebbero piaciute. Così, con la scusa di fargli quel regalo, gli bussai alla porta. Who is it? (chi è?), mi disse. Mi presentai dicendo che non ci conoscevamo, ma stavo anch’io nello stesso edificio, avevo un piccolo regalo per lui e desideravo tanto conoscerlo. Da dietro la porta sentii urlare: Go away! (vai via). Gli dissi: Allora lascio questo regalino qui fuori, se vuole lo prende. Ci fu un attimo di silenzio, poi disse che, forse, potevo entrare. Mi disse anche che era affamato di compagnia. Aprii la porta e trovai un vecchietto con la barba e i capelli bianchi seduto sul lettino in quella stanza che era piena di libri, da terra al soffitto. Libri e mucchi di carte, e anche cartoni del latte – ovunque – un’inenarrabile zozzeria. E quegli occhi che mi scrutavano. Rimasi in piedi, in silenzio, e poi cominciammo a parlare. Nelle due ore che trascorsi con lui mi si aprì un mondo. Iniziammo a connetterci nel profondo, parlando di cose che neanche pensavo di sapere. Torni a trovarmi?, mi chiese alla fine. Sì, torno la prossima settimana, gli risposi. Così è stato. Tornavo da lui ogni settimana. Il giorno dopo il nostro primo incontro decisi di comprare una cinepresa, perché sentivo che dovevo registrare le cose incredibili che mi diceva. La comprai, ma poi non l’ho mai usata perché volevo che i miei occhi fossero la cinepresa. Un giorno, quando stavo lavorando al libro di John Trudell ed ero molto presa dalle prove di stampa, improvvisamente cominciai a pensare intensamente ad Harry. Non lo vedevo da più di una settimana e mezza. Lo chiamai al telefono e mi rispose una donna. Mi presentai e le chiesi di chiedergli cosa gli avrei potuto portare da mangiare, perché non mangiava quasi più. A volte voleva solo liquidi proteici, altre una zuppetta. Lei mi rispose dicendo che Harry non sapeva cosa voleva, ma che andassi da lui subito. Arrivai quasi di corsa, una ventina di minuti dopo. Aprii la porta della sua stanza e restai impietrita. Era lì da solo, mi resi conto che stava morendo. Tossiva sangue. Era circondato da fazzoletti sporchi di sangue. Stava morendo come era morto mio padre – tra l’altro erano nati nello stesso anno –  per una vena scoppiata. Mi immobilizzai sulla porta. Dissi che dovevamo chiamare un dottore, ma lui – continuando a tossire sangue – mi pregò di non farlo. No, please, don’t (no, per favore). Sapeva che stava per morire. Mi avvicinai e lo accarezzai. Non sapevo cosa altro fare. Finché ad un certo punto sentii che lui cominciava a cantare fortissimo, era come un ritmo di un canto arcaico, una metrica di cui non capivo le parole. Poi, in questo canto, distinsi I’m dyiiiiinnnnngggg, I’m dyiiiiinnnnngggg, I’m dyiiiiinnnnngggg… (sto morendoooooo, sto morendoooooo, sto morendoooooo…). Continuai ad accarezzarlo finché non buttò fuori altro sangue, diventò giallo e capii che lo spirito lo aveva lasciato. Allora corsi al piano di sopra e chiamai Raymond Foye, che è colui che ha riunito tutti gli scritti di Harry. Raymond non credeva che avesse lasciato il corpo. Insieme ad altri chiamò l’ambulanza. Quando i medici arrivarono collegarono il corpo di Harry con una pompa. Ricordo che pompavano e dai suoi polmoni usciva lo stesso suono degli uomini morenti che aveva registrato. Allen Ginsberg mi disse che c’era una ragione per il mio essere presente nel momento in cui Harry se n’era andato. Questa trasmissione non poteva essere casuale.”

New York agosto 2014-Ronciglione (Viterbo), maggio 2015 e giugno 2016.

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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