Capolavori della scultura buddhista giapponese. Dare vita a una forma che è sostanza. Intervista con Pierfrancesco Fedi

Si entra nel percorso espositivo dei Capolavori della scultura buddhista giapponese alle Scuderie del Quirinale e ci si trova immediatamente in un’atmosfera  densa, forte di spiritualità e, soprattutto in un racconto sconosciuto di una cultura che, per molti secoli, raramente si è aperta agli scambi.

Le 35 sculture esposte spaziano dal periodo Asuka (VII-VIII secolo) al periodo Kamakura (1185-1333) sono immagini di culto, alcune delle quali difficilmente accessibili anche in Giappone, perché custodite nei templi e nei santuari oppure conservate nei grandi musei nazionali.

L’occhio e lo spirito del visitatore che non sia di fede buddhista, vengono presi dalle espressioni delle statue, dalle loro forme e dai materiali usati per scolpirle, fra cui il legno sembra essere quello primario, quello che conserva la forza della natura che s’intreccia con quella dello spirito e regala un senso di calma e consapevolezza.

Ma qual è stato il percorso storico e religioso della scultura buddhista giapponese? Grazie al Dr. Massimiliano Alessandro Polichetti, Direttore del Museo Nazionale d’Arte Orientale Giuseppe Tucci abbiamo avuto il piacere di intervistare il Professor Piefrancesco Fedi, docente di Storia dell’arte dell’Asia Orientale all’Università di Macerata.

Il Giappone ha fama di essere stata nei secoli una cultura “chiusa”, capace di aprirsi all’altro per  acquisire elementi di altri popoli e poi tornare a ripiegarsi su se stessa elaborandoli e rendendoli propri. Quando è arrivato il Buddhismo in Giappone e attraverso quali caratteristiche specifiche del luogo si è evoluto?

Secondo le antiche cronache (Nihon Shoki o noto anche come Nihongi – Annali del Giappone, redatto verso il 720) un’ambasceria coreana nel 552 avrebbe recato in dono all’imperatore del Giappone una statua in bronzo dorato del Buddha storico Śakiamuni (Gautama Siddhārta nato intorno alla metà del VI secolo a. C., seguendo l’ipotesi più accreditata tra gli studiosi, ma non condivisa da tutti), oggetti per il culto e testi sacri. Esistono altre testimonianze che fanno riferimento alla data del 538 per questa stessa ambasceria, ma è comunemente accettato il fatto che nella metà del VI secolo d. C. la religione buddhista sia stata introdotta nei territori giapponesi. Le forme attraverso le quali il Buddhismo penetrò in Giappone comportavano all’incirca dieci secoli di trasformazioni, dibattiti e modifiche avvenute non solo sul suolo propriamente “indiano” e nelle sue sfere di più diretta influenza, ma anche attuate nei territori centroasiatici, lungo le rotte della cosiddetta “Via della Seta”; nella Cina, divisa dal IV a quasi tutto il VI secolo d. C. tra diverse e conflittuali entità nazionali del Nord e del Sud; e nei regni dell’area coreana, area che svolse, appunto, la funzione di attuare la prima introduzione del Buddhismo in Giappone, in un ambito di mediazione di rapporti con il mondo cinese vero e proprio. A questo “primo contatto” vanno necessariamente aggiunti tutti quei rapporti e quegli apporti, particolarmente nell’ambito cinese, i quali nei secoli successivi avrebbero alimentato lo sviluppo delle varie scuole e dottrine che si vedranno fiorire in Giappone. Nel periodo tra il VII e l’VIII secolo il Giappone si pose come un vero e proprio “terminale della Via della Seta”, come recentemente ha ribadito il professor Adolfo Tamburello (uno dei più importanti studiosi italiani da più di sessant’anni della Storia e della Civiltà giapponese), assorbendo e adattando quelle idee e quegli indirizzi di pensiero o religioni che hanno da sempre accompagnato il traffico delle merci. Successivamente le diverse correnti, maturate sul suolo giapponese, hanno alimentato il percorso non solo religioso ma anche “civile” in ogni ambito e sfera sociale.

La realizzazione delle statue del Buddha, dei bodhisattva, dei monaci, così come la costruzione dei templi hanno rappresentato potenti strumenti con cui la religione buddhista è riuscita ad affermarsi in Giappone. All’affermazione spirituale si è affiancata anche un’affermazione politica? E in cosa è consistita dal punto di vista creativo?

Si potrebbe dire che “l’umanesimo buddhista”, riprendendo un’intuizione di Giuseppe Tucci (1894-1984, nume tutelare dell’Orientalismo italiano), nei suoi vari aspetti abbia svolto, nel e per il Giappone, una funzione di collante cultuale e culturale, ma non solo. La dottrina buddhista, con le sue capacità di permeabilità, di adattamento e di “dialogo” è stata anche in Giappone, sia all’inizio, ma poi anche costantemente nel tempo, l’indispensabile veicolo per una più complessa strutturazione del potere, coniugandosi agli elementi della religiosità tradizionale scintoista propri del territorio e permeando gli influssi pertinenti alla struttura confuciana per il governo dello Stato di derivazione cinese. I numerosi templi, sorti con il consenso o per volontà delle classi dominanti, hanno da sempre associato il “Sacro” al potere politico, inteso principalmente nel senso di “Buon Governo”, in cui i principi della rettitudine, della benevolenza, della disciplina ecc. propri della sfera religiosa, informavano e conformavano quelli della vita pubblica e dell’apparato statale. Ben presto nella seconda metà del VII secolo il Buddhismo sarebbe divenuto il fondamento ideologico del potere del sovrano. Ciò ovviamente in linea generale; nei secoli si sono verificati attriti o contrasti, ma, in effetti, sin dal VII secolo non vi sono state in Giappone persecuzioni contro il Buddhismo, salvo degli sporadici e limitati episodi, alcuni dei quali verificatisi solo nel tardo XIX secolo.

Le sculture esposte alle Scuderie del Quirinale testimoniano un potere spirituale e creativo davvero fuori dal comune. Sono pervase di pace e equilibrio che emana intatto dopo oltre un millennio. Chi sono stati gli scultori e in che rapporto erano con la meditazione, la consapevolezza, la comprensione dell’essenza della natura e della vita?

Questa domanda è particolarmente significativa, perché nell’ambito della produzione scultorea buddhista per quanto riguarda il Giappone le fonti e le diverse testimonianze ci forniscono in maniera consistente e continuata nel tempo i nomi di artisti e di molti scultori di statue buddhiste (busshi nome utilizzato ampiamente sin dal X secolo), alcuni dei quali dalla indubbia individualità e potenza espressiva, e ciò dai tempi più remoti a quelli più recenti. Il fenomeno dell’anonimato che contraddistingue in larga parte la produzione cinese, ma non solo, e che ovviamente (visto il numero delle opere pervenute, senza contare quelle perdute nel corso del tempo) riguarda in parte anche il Giappone, è però secondario rispetto alla riconoscibilità dello stile di grandi maestri e delle loro “scuole”. Non si tratta tuttavia solamente di “artisti”, o di esecutori abili e capaci, ma di uomini che partecipavano e vivevano profondamente l’esperienza religiosa; d’altronde a partire dal X secolo furono quasi esclusivamente monaci. Si riscontra una vera e propria duplicità nella realizzazione delle immagini; da un lato c’era un’intensa preparazione, anche a carattere rituale, che accompagnava la gestazione dell’opera, tanto che portare a compimento una statua era inteso come un’attività di culto e, allo stesso tempo, veniva attuata la ricerca di valori estetici che si fondessero completamente con i valori spirituali. E’ questo un aspetto che si coglie appieno visitando la mostra. Allo stesso tempo ritengo sia corretto affermare che questa sublime coincidenza di Vero-Bene-Bello è propria delle più alte manifestazioni religiose e artistiche dall’Occidente antico e poi cristiano all’Oriente nelle sue molteplici manifestazioni. Francesco Lizzani, uno dei “motori” di questo straordinario evento espositivo, ha felicemente evidenziato, con un paio di confronti, solo apparentemente incongrui e invece particolarmente pertinenti (seppur arditi), come, pur partendo da piani culturali diversi e da sfere religiose ben distinte (ad esempio quella cristiana nell’Italia del primo Rinascimento e la buddhista giapponese) si possa pervenire a risultati di sincera e profonda intensità mistica e valori espressivi di carattere “universale”, al di là del tempo e dello spazio.

Quali sono le peculiarità di queste immagini di culto e in cosa differiscono per attributi, nomi, o altro, da quelle che si sono sviluppate nel buddhismo di altri Paesi?

La peculiarità principale di queste, come di altre immagini cultuali, tanto antropomorfe quanto aniconiche, non è solo quella di rappresentare una figura o un’idea “sacra” ma di materializzarla; non si tratta perciò di evocare, bensì di dare vita a una forma che è sostanza. Per “apprezzare” fino in fondo queste opere è necessario soprattutto “avere fede”, ma non nel Buddhismo, o qualora cristiane, nel Cattolicesimo o nel Protestantesimo, oppure se di ambito musulmano nell’Islam. L’allestimento della mostra, pur con l’inevitabile presenza di vetrine, oltretutto magnifiche, rende questo senso di silenzio, di pace e di predisposizione alla “comprensione” di ciò che è più sacro per l’Uomo in generale. Entrando nello specifico della domanda è ovvio che per un credente (e in questo senso intendo un buddhista praticante) le varie statue possano essere riconosciute agevolmente grazie agli attributi che recano in mano (o nelle mani delle divinità a più braccia), grazie alle posizioni assunte, alla gestualità codificata. È anche chiaro che alcune di queste figure abbiano assunto delle peculiarità specifiche nella loro elaborazione sul territorio giapponese, o delle modificazioni attuate nel tempo tra Asia Centrale, Cina e Giappone ecc. ma, oltre il velo delle apparenti differenze, il linguaggio adottato è un linguaggio comune. Ho cercato finora di non utilizzare nomi specifici o termini totalmente estranei alla tradizione “occidentale”; chi già li conosca non ha bisogno di vederli citati, chi non ne abbia alcuna cognizione non credo mostrerebbe, almeno al momento, una maggiore propensione alla loro conoscenza; adesso però devo necessariamente fare almeno un esempio, cogliendo l’occasione da un termine che lei stessa ha già utilizzato in una delle domande precedenti: i nomi differiscono è vero, ma dire bosatsu (in Giapponese) o dire bodhisattva (il termine in Sanscrito con cui s’indica “colui che possiede in se stesso l’essenza dell’Illuminazione –Bodhi) è in qualche modo esattamente la stessa cosa e se scendessimo nel particolare, rimanendo nell’ambito dei bodhisattva, il Maitreya indiano e il Miroku giapponese sono la stessa figura. Sono dunque identici? No. Potrei dire che sono e svolgono funzioni simili, anche le stesse, ma sulla base comune che informa il senso della figura, sfumature di carattere dottrinale (a livello concettuale e religioso), peculiarità nelle posture (diverse a livello iconografico) ecc. ne fanno dei “gemelli”, uguali e diversi allo stesso tempo.

La costante evoluzione artistica di queste statue sembra andare quasi di pari passo con l’evoluzione delle diverse scuole buddhiste attraverso i secoli. Come si sono evolute le tecniche scultoree e quanto sono rimaste legate ai valori spirituali  e filosofici che ne sono stati all’origine?

In effetti, così come ho voluto rimarcare la possibilità in fondo per chiunque di poter cogliere Verità e Bellezza di queste opere, è anche corretto affermare che a un livello di più approfondite conoscenze, e proprio di ambito giapponese, si possa ritrovare nelle diverse opere il riflesso delle idee dominanti o direttrici delle scuole fiorite in Giappone. Le tecniche adottate sono molteplici e a volte, con il passare del tempo, diverse ma si riscontra anche una certa tendenza a mantenere pur con il passare dei secoli alcune pratiche tecniche, magari sempre più affinate; se, ad esempio, nella produzione lignea (che è poi la dominante) si scolpivano fin dall’antichità statue il cui nucleo principale era costituito da un unico blocco, pratica perdurata nel tempo, a partire dal’XI secolo iniziò ad essere sempre più utilizzata e perfezionata la tecnica a più blocchi. Il legame con i valori spirituali non si è spento con il passare del tempo, però è indubbio che i risultati raggiunti tra il VII e il XIV secolo, per quanto riguarda il Giappone nella scultura buddhista, rappresentano un vero e proprio vertice. Sottolineo che questa non è una mostra sull’arte buddhista giapponese, ma sulla scultura buddhista giapponese; dico questo perché l’arte buddhista giapponese, ad esempio nella pratica pittorica, sia in parte contemporaneamente alla produzione delle sculture ma anche dopo, soprattutto sotto l’influenza del Buddhismo Zen, ha testimonianze pittoriche di straordinaria bellezza e potenza espressiva.

La storia di queste sculture sacre racconta di un particolare legame con il legno che rappresenta la materia distintiva della scultura buddhista. Qual era il rapporto con le diverse tipologie di alberi, con la natura dei luoghi dai quali veniva tratto il materiale che sarebbe servito a raffigurare una specifica immagine?

Tutti sanno quanto il rapporto Uomo-Natura nel Giappone (e nella Cina antica!) sia stato così intenso e sentito; nel Giappone arcaico e antico la natura dei luoghi e delle forze che li contraddistinguevano era fortemente percepita e vissuta. I kami (forze spirituali vincolate a certi luoghi o anche vere e proprie entità) ne rappresentano l’aspetto più evidente; non solo un certo luogo, ma, ad esempio, un albero (come pure una roccia, una cascata, o anche un oggetto simbolico, come uno specchio, una rozza scultura) poteva essere legato a un kami particolare. Nel Giappone, prima dell’introduzione del Buddhismo di cui si è già detto, governo e culto del kami erano strettamente legati; ma anche dopo ciò, l’incontro tra la tradizione scintoista e il credo religioso buddhista avrebbe mantenuto tale connessione politica e sociale. Diverse tipologie di legno sono state usate per realizzare le statue, ma non mancano eccellenti esempi prodotti in altri materiali come il bronzo (in particolare alcune eccezionali statue, tra le più antiche, eseguite fino all’VIII secolo), l’argilla e la cosiddetta “lacca secca” (già dal VII secolo). Certamente in Giappone il legno è un materiale d’elezione principe e gli esempi statuari giapponesi, come la gran parte di quelli selezionati per la mostra, sono indiscutibilmente tra i più belli di tutta la produzione scultorea buddhista dell’Asia Orientale. Nella mostra si ricorda, infatti, come su 2626 statue classificate in Giappone come tesoro nazionale o importante proprietà culturale ben 2329 siano eseguite proprio in legno, ricercato non solo per i colori naturali, la bellezza delle venature o per la duttilità nell’esecuzione, ma anche per il profumo che alcuni tipi emanano. Con il IX secolo il legno divenne il materiale principale, se non esclusivo, per la realizzazione delle statue lignee; le più antiche, di cui rimangono alcuni straordinari esempi del VII secolo, prediligevano il legno di canfora, ma poi sarebbero stati utilizzati il legno di sandalo bianco (già usato ampiamente in Cina), quando era possibile reperirlo, oppure legni come quelli degli aghifoglie (genericamente haku), ad esempio il pino in alcune sue varietà, quindi la torreya nucifera della famiglia delle taxacee, e ancora in seguito dal X secolo in poi il legno di cipresso giapponese (hinoki).

Quali sono le parole guida che possono accompagnare il visitatore occidentale alla comprensione dei sentimenti e delle emozioni che l’incontro con queste sculture riesce a provocare?

Più che di parole guida, sulla scorta di quanto è riuscito a trasmettere un Maestro come Mario Bussagli (1917-1988), colui che ha formato tutti gli storici dell’arte di ambito orientale e non solo, con il suo insegnamento presso la Sapienza, Università di Roma per più di un cinquantennio, consiglierei quanto segue: in primo luogo “assenza di pregiudizi”, cioè lasciarsi guidare dall’emozionalità, assecondare le sensazioni che le opere singolarmente, o riunite insieme, possono offrire. Con questo non intendo che si debba avere un approccio acritico, ma non è nemmeno necessario ostentare o ricercare conoscenze approssimative. E’ ovvio che un fedele buddhista in senso lato, indiano o cinese, italiano o giapponese, statunitense o tibetano ecc. al cospetto di queste “opere divine” dell’uomo, può, magari, non rammentare tutti gli attributi, non coglierne tutti i significati, ma non può estraniarsi da un generale riconoscimento delle immagini, concetto che, ribadisco, vale generalmente in ogni occasione espositiva, o nell’ambito di approccio a un preciso progetto culturale. Conoscere già è utile, sì. Ma non è indispensabile! Un visitatore che non sia buddhista resterà indifferente a questi capolavori, perché non ne conosce la religione? Direi di no, per apprezzare la Pietà Vaticana di Michelangelo in tutto il suo splendore bisogna essere cattolici? Per ammirare la Primavera di Botticelli è forse imprescindibile conoscere il Neoplatonismo fiorito nel tardo Quattrocento nelle sue speculazioni più ardite? O ancora, la visione de Il parrocchetto dai cinque colori di Hui Zong (1082-1135, imperatore cinese dalla misera fine ma eccellente pittore) è di pertinenza solo di un cinese, di un giapponese, degli studiosi del campo o di appassionati di ornitologia? La comunicazione artistica, o meglio la “comunicabilità” dell’Arte, passa è vero attraverso conoscenze, ma principalmente grazie alla predisposizione a una comprensione di cuore e di mente libera da preconcetti. Comunque, per non eludere la domanda, se proprio dovessi fornire delle “parole guida” proporrei: di cogliere il “soffio vitale” (ki in Giapponese, ma è il qi Cinese, inteso come “sintesi” di energia-materia) che “anima” le opere e il senso di armonia (wa in Giappone) che tutte le statue e tutto il percorso pervade.

Pierfrancesco Fedi.
Professore a contratto di Storia dell’arte dell’Asia Orientale all’Università di Macerata, è stato per più anni docente a contratto di Pittura cinese e giapponese presso la Sapienza, Università di Roma e anche di Storia dell’arte cinese presso l’Università di Urbino “Carlo Bo”; è stato anche collaboratore esterno per il settore dell’Asia Orientale di musei e istituzioni come Il Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci” di Roma, la Pinacoteca Capitolina di Roma e il Museo Nazionale del Palazzo di Venezia a Roma.

 

+ ARTICOLI

Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.