Ugo Rondinone al Carré d’art di Nimes. Romanticismo al suolo

Ugo Rondinone, elevated rectangle landscape, 2016, gray white pink clock, 2013

Becoming Soil è il titolo della personale dell’artista svizzero, a cura di Jean Marc Prevost, al Carré d’art di Nimes.

Nelle indicazioni di rito, per accompagnare la visita, si parla di «opera d’arte totale», distribuita lungo le otto sale che formano lo spazio espositivo destinato alle mostre temporanee al terzo piano del bell’edificio fosteriano che fronteggia la romana Maison Carrée. Spazio e tempo scandiscono gli elementi figurativi che abitano i vari ambienti, in una sorta di viaggio tra le forze ctonie e organiche della natura. Si comincia, nella prima sala, con un tappeto sospeso di humus (terra, paglia, legna e detriti), che occupa quasi completamente la stanza, dal titolo Elavated Rectangle Landscape (2016) illuminato da una vetrata circolare a muro (sulla parete opposta all’ingresso) la cui forma d’orologio presenta le ore in numeri romani, ma non ha lancette. Ripartita in tre corone circolari dai colori grigio, bianco e rosa (Gray White Pink Clock, 2013), forse indica allo spettatore la sospensione del tempo lungo cui l’inerte massa al suolo del paesaggio s’appresta a rilasciare indicazioni per lo sviluppo di possibili forme di vita. La scura massa amorfa ricorda in qualche misura le concrezioni di Meg Webster, ma suona meno diretta poiché leggibile solo come allusione metaforica al contrasto tra strutture formali e elementi naturali che caratterizzava invece la ricerca dell’artista americana. Rondinone sembra citarla solo per aprire il discorso verso la seconda sala, che presenta uno stuolo di uccelli (modellati a mano nell’argilla e fusi poi in bronzo) d’impronta giacomettiana (Primitive, 2011-12), intenti a razzolare ed a vagare come attirati verso una cascata di neve (Thank you Silence, 2005), che s’intravede al fondo della stanza. A guardar meglio, questa montagnola bianca risulta formata di minuscoli quadratini di carta che richiamano i cristalli del ghiaccio.

A parete, lo spazio-tempo della scena è filtrato da un’altra finestra-orologio, che lascia trasparire allusioni al vespertino tramonto del sole (Yellow White Orange Clock, 2013). Come espresso dall’artista stesso, queste prime stazioni del  percorso dialettizzano gli elementi primari della terra e dell’aria, riempiendo e occupando il suolo, mentre il prosieguo del racconto visivo raccoglie nella terza sala grandi tele ad inchiostro disposte lungo i muri perimetrali.  Si tratta di sei paesaggi i cui titoli, iscritti su targhe metalliche in tedesco, sono date che coprono un ambito temporale tra marzo e maggio del 2011. Rappresentano boschi e foreste intricati. L’iconografia è tardobarocca, riferibile alla maniera di Rottenhammer ed Elsheimer se non quasi agli stilemi popolari della Wandermalerei. Acquistano pregnanza romantica perché l’artista, enfatizzando nel formato i soggetti, gli ha privati del colore. Sulla parete una piccola scultura, a forma di serratura (Big Mind  Sky, 2005), rilascia una flebile brezza a rammentare forse che gli alberi immobili rappresentati sono pur sempre mossi dagli zefiri dell’immaginazione dell’artista.

L’afflato poetico che dovrebbe pervadere la sala ( rispetto al quale, Rondinone chiama a testimoniare Novalis) sembra però appesantito da quello che Hegel definisce, nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, «l’estrinsecità reciproca interamente astratta» di spazio e tempo. Ed è rispetto a questo approccio romantico logico che la presunta sublimità dei paesaggi rondinoniani si mostra debitrice piuttosto che verso il richiamo a restituire autenticamente l’incondizionato della natura, come presupposto dal dettato artistico novalisiano.

La grandezza formale dei dipinti risulta un escamotage percettivo per direzionare la prospettiva del visitatore piuttosto che mostrargli, anche nell’iperbolico della forma (Kolossal Bilden per Schelling), l’unità di finito ed infinito, di reale e ideale. Quest’impressione è suggerita dalla quarta sala, in cui 47 bronzei pesci (Primordial, 2016) sguazzano nell’aria sostenuti da esili fili attaccati al soffitto. Se prima l’unità sintetica significante riguardava l’esteriorità rappresentativa della terra, nella sua determinazione boschiva e simbolicamente riattivata attraverso la citazione di un universo culturale in qualche modo individuabile, qui l’elemento primario è l’acqua ma la sua determinazione materica sono i sembianti ittici, che la mano dell’artista ha plasmato e posizionato in un acquario astratto attraversabile secondo percorsi stabiliti. L’occhio serafico di un mare-orologio (Blue White Blue Clock, 2013) sorveglia la traversata. A livello di percezione immediata, l’immobilità dei pesci suggerisce la continuità di specie attraverso l’unità astratta di tempo e spazio, la loro mobilità pertiene invece alla finitezza del movimento che può essere impresso dagli spostamenti dei visitatori. Che con questo si voglia suggerire anche un piano simbolico legato alla creazione, attingendo dalla tradizione iconografica religiosa richiami rappresentativi cristologici, rimane da verificare.

La passerella-ingresso della sala 5, composta da una porta ad arco (Arched Doorway Landscape, 2016) ricoperta di terra e da un oblò spazio/temporale a quattro colori (Blue White Gray Red Clock, 2013), delimita la zona di competenza terrestre della mostra e introduce a quella celeste. La triplice dislocazione spaziale delle opere in questo comparto rafforza la sensazione che, lasciata indietro la competenza aderente alla gravità temporale della terra, si tratti di percorrere lo spazio nella sua profondità siderale o eterea. Le stanze 6 e 8, infatti, sono occupate da cinque  grandi tele rettangolari e sette sagomate a mo’ di nuvola, che raffigurano notti stellate e calmi cieli azzurri.

Tra i due spazi – che accolgono anche un piccolo bassorilievo del sorgere della luna come maschera sbadigliante (Moonrise, 2003), un calco della mano dell’artista (Twelve Sunsets, Twenty Nine Dawns, all in one, 2008) ed un dispenser d’incenso (On Butterfly Wings, 2006) – 44 statuette di cavalli (Primal, 2013), sempre in bronzo, sembrano risalire  la corrente del tempo in un estatico riposo. Tale disposizione sembrerebbe comporre questa parte della mostra come una riflessione sull’indeterminazione assoluta dello spazio/tempo rappresentato, che può essere corretta solo dalla determinazione relativa dell’intenzione dell’artista ( i titoli di tutti i quadri sono specificazioni della sua temporalità soggettiva essendo, come quelli paesaggistici, le date della loro esecuzione in tedesco).

È singolare che le raffigurazioni delle notti stellate, eseguite utilizzando  pigmenti neri polverizzati su sabbia e ghiaia, ricordino molto le opere di Vija Celmins, disattendendone lo spirito però perché l’intenzionalità alla loro base è quella di risultare in qualche misura realistiche. Sono i paradossi della citazione appropriativa che abilita la distorsione della poetica pure a monte di un risultato figurativo pressoché indistinguibile dall’originale. Allo stesso modo, la ‘trasparenza’ delle nuvole di cielo richiama alla mente i cieli di Antonio Carena, ma se, come ben scriveva la compianta Marisa Vescovo, «l’mmaterialità della luce nell’opera dell’artista piemontese ben sostiene la materialità della cromia», per Rondinone essa funge invece da distensore dello sguardo. Per lui il colore è tramite verso la distanziazione, come confronto con l’eterno che può essere sopportato solo attraverso l’agone del lavoro artistico.

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Pagliasso, Giancarlo (Torino, 1949). Estetologo, scenografo, artista e scrittore. Fondatore, nel 1976, del G.R.M. e direttore dello Studio 16/e (Torino, 1977-90). Teorico e artista dell’Arte Debole (1985-96). Direttore dal 1997, dell’agenzia d’arte Figure. Caporedattore della rivista www.Iride.to. (2002-2004). Ha pubblicato: Déjà Chimera Saggi/Writings, 1987-90 (Tangeri, 2001); La retorica dell’arte contemporanea (Udine,Campanotto, 2011); Il deficit estetico nell’arte contemporanea (Cercenasco, Marcovalerio, 2015); Fotografia 2 (Udine, Campanotto, 2015); Il nuovo mondo estetico (con Enrico M. Di Palma) (Cercenasco, Marcovalerio, 2020). Ha curato: Sheol (Torino, Marco Valerio, 2003); Collins&Milazzo Hyperframes (Udine, Campanotto, 2005); Julian Beck. Diari 1948-1957. (Udine, Campanotto, 2008); Julian Beck. In the Name of Painting (Pordenone, 2009). Curatore di mostre in Italia e all’estero, è uno dei redattori di Zeta (Udine), con cui collabora dal 2005.

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