Claudio Cantelmi. Artista, trampoliere, docente di Arte e Immagine, autore del libro On Screens – Homage to Fabio Mauri 1926-2009

A casa di Claudio Cantelmi (spaghetti con le vongole), Roma luglio 2016 (ph MDL)

Estate romana tra i tetti, sulla terrazza condominiale di una palazzina di Tor Pignattara, periferia romana frequentata e amata da Pierpaolo Pasolini. Tra le antenne paraboliche scende il buio, nel cielo attraversato dagli aerei sulla rotta di Ciampino. La serata è insolitamente silenziosa. Più che le voci – il giorno dopo la fatidica partita dei Mondiali in cui l’Italia è stata battuta dalla Germania – ad arrivare fin quassù è il profumo dei cibi speziati, frutto della cultura multietnica che da qualche anno si è insediata nel quartiere. Claudio Cantelmi (Sulmona, AQ 1962, vive e lavora a Roma) abita qui da 9 anni. Tra i condomini è quello che anima più assiduamente la terrazza comune, occupandosi delle piante sempre più numerose. E’ un giardino fiorito anche la tovaglia di cotone che ospita il piatto di spaghetti con le vongole – un filo d’olio d’oliva, un pizzico di pepe nero e un sottofondo di peperoncino – che ha cucinato per il nostro incontro, accompagnandolo da un bicchiere di vino bianco e per chiudere un frutto di stagione, l’anguria.

Spiega l’artista, trampoliere, docente di Arte e Immagine, allievo e assistente storico di Fabio Mauri, autore del libro On Screens – Homage to Fabio Mauri 1926-2009 (2013) :

“Non vado matto per il pesce, ma gli spaghetti con le vongole mi piacciono molto. La prima volta che ho provato a cucinarli è stato per il compleanno della mia amica Davidena. Saremo stati una decina. Di solito non si prova un piatto nuovo in occasioni come queste, ma sono venuti subito buoni! Poi li ho rifatti un’altra volta per una cena, sempre qui sul terrazzo, e anche ad una Vigilia di Natale a Sulmona, a casa di mia madre. Mio fratello Donato, il secondogenito (il più grande è Damiano), sapendo che ero io a cucinare quella sera non tornò a casa. Invece, mia sorella Antonella ne mangiò due piatti!”.

A cucinare Claudio ha imparato da sé, osservando e apprezzando da sempre la cucina materna, legata alla tradizione gastronomica abruzzese. “I ravioli che faceva erano particolari, una mia amica li ha definiti, oltre che buonissimi, grandi come un letto a due piazze. Lei e mia zia Rosina, pur provenendo da due paesi diversi, mamma da Castel di Sangro e zia da Caramanico, cucinavano in modo simile. Mi sarebbe piaciuto che mamma mi insegnasse qualche ricetta. E’ un peccato che adesso non le ricordi più. Faceva anche dei biscotti tipo savoiardi che erano veramente speciali. In Abruzzo se ne fanno di simili in molti posti, ma non li ho mai trovati così buoni come i suoi. Sicuramente aveva degli appunti dove annotava gli ingredienti che forse erano scritti su fogli volanti, perché non li abbiamo mai ritrovati in casa. Di solito, però, improvvisava. Mi sono comprato vari utensili da cucina, come l’attrezzo con le corde per tagliare gli spaghetti alla chitarra, di quelli che si trovano ancora nei mercatini abruzzesi, e anche la tavola di legno per ammassare la pasta. Le buone intenzioni ci sono, ma mi devo mettere in azione!”

La tua mamma è anche il soggetto di un’opera (Madre, credenza, campagna) che hai realizzato nel 2015 in occasione della tua personale Memorie o L’inganno dei sensi al Museo Civico Archeologico “A. De Nino” di Corfinio (AQ)…

“In mostra ci sono anche altri soggetti con cui affronto il tema della memoria, ma ho voluto inserire anche mia madre. E’ abbastanza forte per me vivere questo momento in cui lei sta apparentemente bene, ma la demenza sta facendo il suo percorso. Non ci sono cure risolutive per questi problemi di salute. Il lavoro nasce dall’assemblaggio di almeno tre vetri. Inizialmente c’era l’idea di inserire anche un oggetto – un piatto rotto di porcellana bianca – tra le superficie di vetro, perché voleva narrare un episodio di me bambino con mia madre. Il primo vetro, su cui è inciso un cavallo in corsa, apparteneva alla vecchia credenza della nostra cucina, di quelle con i vetri scorrevoli. L’altro vetro si ruppe in seguito al lancio di un piatto di minestra.  Ero piccolo e non volevo mangiare, mia madre perse la pazienza, prese il piatto e lo tirò rompendo il vetro della credenza. La credenza rimase per sempre con un solo vetro. A seguire ho messo un ritratto fotografico di mamma da giovane e, sullo sfondo, il paesaggio di una campagna. Quella campagna apparteneva ai miei nonni paterni, ai piedi di Pacentro, vicino Sulmona. Quando era vivo mio nonno c’era ancora la vigna. Ricordo che da bambino si andava a raccogliere l’uva. Io ero il più piccolo e, dato che nei campi davo un po’ fastidio, mi tenevano chiuso in automobile. Negli anni successivi, quando mio nonno non c’era più, era comunque un luogo dove tutta la famiglia si radunava per fare le scampagnate. C’era la famiglia di mio zio, il fratello di mio padre: eravamo vari cugini, tutti cresciuti insieme tra orticelli e campagna. Ho voluto inserire anche un ricordo di quella campagna con il paesaggio dove crescevano spontaneamente erbacce e papaveri. E’ l’insieme di ricordi che si sovrappongono. La memoria non è mai qualcosa di definito, ma nasce da una sovrapposizione di elementi che dipendono dal momento, dalla situazione. Se ti imbatti in un certo profumo, in alcune immagini o in alcuni sapori, i sensi ti riportano alla memoria ricordi apparentemente dimenticati. I primi anni che ero a Roma, qualche volta mi capitava di sentire dei profumi che mi ricordavano le primavere in Abruzzo. Quelle primavere che forse adesso non ci sono più. Era un ricordo nostalgico.”

Un momento significativo del tuo percorso personale e professionale è stato la frequentazione, nella Sulmona degli anni ’80, di un gruppo di amici creativi guidato da Armando Sulprizio…

“Ero un ragazzo molto introverso, credo che Damiano – mio fratello maggiore – avesse intuito il mio stato d’animo. Lui frequentava un gruppo di giovani che erano molto attivi a Sulmona. Organizzavano mercatini artigianali di oggetti fatti a mano, c’era chi lavorava il cuoio, chi il legno. Io avevo una certa abilità manuale e con loro mi misi anche io a costruire oggetti. Lì conobbi Armando Sulprizio che era un ragazzo molto eclettico, un creativo di talento pieno di iniziative. Armando, che era l’ideatore di molti eventi, ci propose di collaborare all’organizzazione di alcuni di essi sotto il nome di Gruppo Arte Attiva. Ricordo, nel 1981, la Festa della Primavera. Ci eravamo riuniti nella sede del Teatro Sperimentale di Sulmona, dove c’erano una grande cucina e una sala da pranzo – prima che fosse assegnata ad un gruppo di teatranti vi si dava da mangiare ai poveri – per realizzare una serie di decorazioni con cui, nella notte tra il 20 e il 21 marzo, addobbammo tutti i monumenti principali di Sulmona con enormi fiori di cartapesta e rondini. Avevo 18 anni, all’epoca i telefonini non c’erano, dopocena uscimmo come folletti per la città. Mia madre ad una certa ora, non vedendomi, si preoccupò. Non era mai successo prima. Chiese a mio fratello di andare a cercarmi. Lui passò in centro e vide che stavo sul sagrato della chiesa ad attaccare, tra un lampione e l’altro, le rondinelle che avevo ideato e creato. Centinaia di rondini! Mi vide, quindi, ma non mi disse nulla. Tornò a casa e tranquillizzò mia madre, dicendole di andare a dormire perché ero in buona compagnia. Era la prima notte che passavo fuori casa.  Finimmo all’alba, ma a quel punto preferimmo rimanere lì per gustarci le reazioni della gente nel vedere gli addobbi. Fu emozionante! Con Armando ho vissuto dei momenti molto belli. In quegli anni, con quella compagnia, feci per la prima volta uso dei trampoli che aprono un’altra parentesi nel mio percorso. Si facevano esperienze di drammatizzazione, tentando di mettere in scena carnevali ed altro. Facemmo venire il regista Claudio Di Scanno per organizzare un corso di teatro di strada e lui ci insegnò l’uso dei trampoli. Io fui uno dei pochi che misi i trampoli da un metro e camminai subito, naturalmente con tutti gli altri componenti del gruppo che mi facevano da assistenza a cerchio. L’esperienza, e anche la passione nell’uso dei trampoli, però è avvenuta nel tempo. Ho inizialmente ammirato gli spettacoli del TTB – Teatro Tascabile di Bergamo, i cui componenti furono i primi a danzare il valzer sui trampoli, poi a l’Aquila conobbi l’Abraxa Teatro con cui, a Roma, apprezzai e imparai l’uso della musica sui trampoli. In quegli anni sentivo dentro di me una voce che mi diceva che anch’io, un giorno, avrei imparato l’arte del trampolare.”

Ci sono una serie di elementi che sono confluiti nel tuo lavoro artistico: il teatro, la manualità nella costruzione, l’elemento scenografico. Da ragazzino introverso – come dici di essere stato – l’arte è stata, forse, la chiave per entrare in contatto con il mondo esterno. In particolare, l’incontro con i trampoli sembra che sia stato decisivo…

“Sicuramente sì. Per andare sui trampoli quello che bisogna superare è la paura. Non sempre si riesce ad allontanarla, ad esempio fare le scale – salire e scendere i gradini – è molto più complesso che camminare in piano. Non è tanto il guardare dall’alto che dà la sensazione di qualcosa di diverso, piuttosto è quel senso di leggerezza rispetto a quando i piedi sono per terra. Sui trampoli, poi, c’è la necessità di dover essere sempre in movimento. Quei pochi secondi in cui si sta fermi non è uno stare fermo radicato, ma sospeso. Spesso ho sentito il bisogno di usare i trampoli per alleggerirmi da una pesantezza della vita quotidiana. Credo che sia la stessa sensazione di liberazione che provano molti sportivi nella pratica di diverse discipline.”

Cosa ti ha spinto, poi, ad iscriverti al corso di Scenografia all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila?

“Nel 1981 mi ero diplomato all’Istituto Tecnico per Ragionieri e, subito dopo, mi iscrissi alla facoltà di Architettura di Pescara, lavorando contemporaneamente nello studio di un commercialista. Il mio datore di lavoro mi mandava, di tanto in tanto, a L’Aquila a sbrogliare alcune pratiche presso gli Uffici provinciali delle imposte dirette, del Registro e dell’IVA. Un giorno, mentre ero lì, decisi di visitare l’Accademia. All’università avevo sostenuto un paio di esami, tra cui Geometria Descrittiva, ma l’accademia mi sembrava più interessante e subito dopo mi iscrissi all’insaputa di tutti. Frequentavo le lezioni da pendolare. Mia madre se ne accorse dopo un po’, semplicemente perché stavo realizzando una scenografia. Il docente era Salvatore Vendittelli e per la mia scenografia di Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare avevo realizzato un bosco surreale, prendendo ispirazione da un’opera di Magritte, in cui gli alberi erano simulati da una foglia magrittiana che avevo moltiplicato. Il bozzetto era fatto, ma decisi anche di realizzare il modellino in grandi dimensioni, quindi un giorno mi chiusi nella sala da pranzo di casa e comincia a tagliare e incollare vari materiali. Mia madre sentendo quei rumori entrò, e allora capii che avevo intrapreso un’altra strada.”

Hai citato Salvatore Vendittelli, pittore e scenografo che collaborò a lungo con Carmelo Bene…

“Salvatore è stato senz’altro un maestro nell’arte della scenografia, ma era anche un maestro di vita e durante le lezioni ci raccontava spesso momenti della sua vita. Il suo vissuto di bambino durante la guerra con il bombardamento di San Lorenzo, a Roma, come pure le esperienze vissute insieme a Carelo Bene. Lo ricordo con grande affetto perché condiva le lezioni con spaccati di vita irripetibili.”

L’incontro più significativo, tuttavia, è stato quello con Fabio Mauri…

“Fabio è stato il mio docente al corso di Estetica. Preparai la tesi di laurea sul futurista abruzzese Achille Ricciardi, che era nato nella mia stessa città, scrittore e teorico del teatro italiano. Il mio relatore era Fabio, grande estimatore appassionato di Futurismo, che proprio in quegli anni – esattamente era il 1986, aveva nuovamente messo in scena Gran Serata Futurista 1909-1930 al Teatro Comunale de L’Aquila, coinvolgendo gli allievi e i docenti dell’accademia, con la partecipazione straordinaria di Toti Scialoja e Maurizio Calvesi. Con lui l’Accademia di Belle Arti dell’Aquila ebbe una grande vitalità, perché sapeva coinvolgere nelle sue performance l’intera accademia. Nella Gran Serata Futurista tutti i corsi convogliavano nello spettacolo: decorazione, pittura, scultura e scenografia. Quello spettacolo fu una macchina incredibile. Lui mi aveva scelto anche come attore, dandomi la parte del filosofo. L’unico problema è che le prove si facevano sia durante il giorno che la sera, quando l’accademia chiudeva, ed io essendo uno studente pendolare ad una certa ora sparivo. All’inizio Fabio non assegnava la parte, ma faceva ripetere la stessa a più ragazzi. Perché quando si partiva in tournée, essendo una grande compagnia con un centinaio di persone in scena, bisognava essere certi che ci fosse sempre un sostituto. Qualcuno ogni tanto si perdeva per strada, come me che persi l’occasione di fare quello spettacolo con Fabio. Ma avendo frequentato il corso di scenografia, e avendo una predisposizione nel realizzare plastici lui mi chiese di riprodurre per lo spettacolo dei piccoli mobili futuristi di Balla, prendendo ispirazione da una fotografia. Li realizzai di una ventina di centimetri per una scena dello spettacolo con un teatrino di burattini. Ma questa scena non fu mai inserita nell’edizione del 1986. I mobili li dovetti rifare due volte, perché per i primi avevo usato un legno troppo scuro. Gli altri, con il legno più chiaro e vicino all’originale, Fabio li conservò a casa sua, a Roma, esponendoli nella libreria vicino ai libri sul Futurismo. La copia più scura, invece, la conservo io.”

A quei tempi c’è stato un momento in cui hai avuto la percezione che il tuo futuro sarebbe stato legato a quel grande artista concettuale?

“Mi piace ricordare un episodio che avvenne quando frequentavo il corso di scenografia. La mia proiezione era sicuramente verso il teatro, un po’ per via delle esperienze che avevo vissuto a Sulmona, inclusa quella dei trampoli che, in realtà, sarebbe maturata pienamente solo qualche tempo dopo, quando mi trasferii a Roma. Per il corso di scenografia realizzai i bozzetti per Sei personaggi in cerca d’autore, il dramma di Pirandello. Immaginai una scena tutta nera, come un teatro nero, i personaggi in calzamaglia nera sagomati dai tubi di neon. Per i bozzetti avevo usato il cartoncino nero con le matite colorate, ma non ero soddisfatto del risultato tanto che decisi di realizzare un modello a grandezza naturale, usando plastica trasparente su cui attaccai i tubi colorati. Fabio, vedendolo, rimase colpito. Mi disse che quel lavoro era un’opera e che avrei assolutamente dovuto fare l’artista. Aveva intuito, forse prima di me, che mi sarei potuto dedicare all’arte figurativa.”

La collaborazione professionale, però, è iniziata qualche anno dopo…

“Venni a Roma alla fine degli anni ‘80 con l’idea di lavorare in campo teatrale e cinematografico. Arrivai con i miei bozzetti dell’Accademia e cominciai a recarmi presso vari scenografi. Con Luciano Damiani, fondatore del Teatro di Documenti a Testaccio, in particolare, l’incontro fu straordinario. Molti studenti si proponevano a lui come assistenti, quando arrivai io con la mia cartella di bozzetti disse … “finalmente uno scenografo”. Il Maestro non poté offrirmi incarichi di lavoro ma mi offrì di fare una mostra dei miei bozzetti nel suo teatro. Mancai questa occasione, ero giovane e con poca esperienza, tuttavia incontrai di nuovo Damiani, sempre da giovane allievo, e fu di nuovo con una stimata accoglienza. Iniziai a collaborare con Fabio Mauri intorno al 1988, quando lui fu invitato a Napoli a partecipare ad una conferenza universitaria di psichiatri e psicologi che parlavano della Memoria. Per quell’occasione scrisse Ricostruzione della memoria a percezione spenta. Mauri è stato il primo artista, in Italia, a fare conferenze con performance. In quell’occasione, alla fine della lettura del testo, mi invitò – presentandomi come suo allievo – a mettere in moto la macchina per fare l’esperimento sulla memoria e vedere se funzionasse. Io accesi il proiettore Super8. Come dichiarò lui stesso, utilizzò un’animazione realizzata da me in accademia, che a suo tempo gli era piaciuta molto, montata ad altre riprese. Scene familiari e di repertorio venivano proiettate sul volto di Fabio che le commentava a braccio. Ma non a caso, perché sapeva esattamente ciò che veniva proiettato in quanto aveva uno specchietto nascosto che gli permetteva di veder scorrere le immagini. Sebbene andasse a braccio, i temi che toccava erano quelli della memoria. Ricordo che quando apparve l’immagine del volto di un ragazzo a cui scende una lacrima da un occhio, lui fece riferimento all’esperienza del manicomio.”

Lo studio di Fabio Mauri era in Via Santa Maria dell’Anima, dove l’ho intervistato nel 2004?

“Fabio aveva già lo studio in Via dell’Anima, però noi assistenti lavoravamo in quello di Largo Febo, vicino all’Hotel Raphael. Mi chiamò mentre preparava la mostra Interno/Esterno alla galleria Anna D’Ascanio di Roma. Voleva realizzare delle opere utilizzando quello che in scenografia chiamiamo “pappone”: un miscuglio di gesso, vinavil e segatura che viene dato su pannelli di legno per simulare l’intonaco. Avendolo visto in accademia, voleva utilizzarlo per le sue opere. Io, francamente, non ricordavo come fosse il giusto impasto, ma gli dissi che mi sarei informato da Salvatore Vendittelli e così gli portai le indicazioni per il composto. Quando arrivai a studio lui mi disse “Vedi quel tavolo da lavoro lì? E’ libero. Se vuoi da domani puoi iniziare a lavorare.” Temporeggiai un mese, perché in quegli anni non conoscevo in modo approfondito né il lavoro di Mauri, né il mondo dell’arte figurativa. Ero proiettato soprattutto verso il mondo teatrale, avendo fatto alcune esperienze con Antonio Calenda, e, come aiuto scenografo e aiuto costumista, con Ambra Danon, scenografa e costumista di Ronconi. Forse nel settore teatrale ci vuole molta più determinazione, o forse è anche destino. Comunque, dopo aver esitato per un po’, iniziai finalmente a lavorare allo studio di Fabio Mauri!”

Fabio Mauri ha sempre avuto più di un assistente, quasi a ricreare una sorta di officina rinascimentale. Quasi tutti erano stati suoi allievi…

“Sì, diversi assistenti erano stati suoi allievi, prima e dopo il mio arrivo. Tra quelli storici c’è Marcella Campitelli che, insieme a Ivan Barlafante, Sandro Mele e Dora Aceto, continuano a collaborare con lo Studio Fabio Mauri. Anche quando non insegnava più all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila chiedeva ad ex colleghi – tra loro Lea Contestabile – di segnalargli giovani di talento. Tra i suoi assistenti, negli anni Settanta, c’era stato Lillo (Carmelo) Romeo, anche lui artista che dirige oggi la rivista online Arteideologia ed altri bravissimi, se non straordinari, tra cui Antonio Verna, Roberto Pietrosanti, Teresa Rinaldi, Gino Sabatini Odoardi.”

La realizzazione dei modellini – molti dei quali saranno esposti al museo MADRE di Napoli in occasione della mostra Fabio Mauri. Retrospettiva a luce solida – è stato, per te, uno dei lavori più entusiasmanti…

“Fabio sapeva individuare le peculiarità delle persone e dei suoi modellini sono stato il realizzatore tecnico. Come si vede anche nel video di Interno/Esterno, di cui è stato pubblicato il link nel sito web di Fabio Mauri, c’è il momento in cui arriviamo con il modellino in galleria, da Anna D’Ascanio, e l’allestimento viene realizzato sulla base di ciò che Fabio aveva progettato a studio. Io riproducevo la planimetria dello spazio espositivo e le sue opere in miniature, mentre lui – in base al modellino – progettava l’allestimento. Devo dire che non era una cosa iniziata con il mio arrivo a studio, perché già allora girava qualche modellino degli anni Settanta. Ricordo di aver ritrovato e restaurato quello di Che cos’è il fascismo, firmato dall’artista come progetto di allestimento della performance. Certamente, dalla fine degli anni ‘80 in poi, per ogni sua mostra non poteva mancare il modellino, che – come dicevo – per lui era indispensabile per progettare la mostra stessa.”

Tutto era studiato, nulla era affidato al caso?

“Non si spostava neanche una virgola. Nel montare la mostra, in galleria o nel museo, rispettavamo tutto: la distanza tra le opere, l’altezza. Io riproducevo in scala. All’inizio era una scala piuttosto arbitraria. Certe volte quando gli chiedevo quale dovesse essere la grandezza del modellino, lui me la indicava usando le mani. Allora mi avvicinavo a lui con il metro e, in base a quella misura, dovevo ricalcolare tutto in proporzione. I modellini erano molto variegati. Dovevano essere da viaggio, quindi smontabili perché magari la mostra era all’estero e il modellino sarebbe stato portato in aereo nel bagaglio a mano, come per le mostre di Lille e Klagenfurt. I modellini, quindi, avevano sicuramente la funzione di determinare la scelta delle opere, ma anche l’allestimento e come potessero dialogare tra loro e con il pubblico. Ricordo che a Klagenfurt le pareti del museo erano altissime e lui decise di utilizzare anche la verticalità. Non mise l’opera simbolo, lo Schermo con la fascia nera del ’57, ad altezza sguardo, ma in cima ad una parete altissima. Per poterlo guardare bisognava reclinare la testa. Appoggiata alla parete c’era una scala che, in maniera metaforica poteva essere utilizzata per andare ad osservare l’opera da vicino. Era esposta anche tutta la serie degli Schermi, inclusi quelli con il telaio aggettante. Allestimenti particolari come questo venivano progettati all’interno del modellino. Ma c’erano anche dei momenti in cui Fabio si lasciava ispirare dal caso, che tuttavia si doveva sempre riallacciare ad un filo conduttore del suo percorso di lavoro. Una volta era stato invitato ad intervenire in uno spazio abbandonato. Lì, nell’architettura del luogo, intravide degli schermi. Non fece alcun intervento artistico, perché non ce n’era bisogno. Il titolo che diede al lavoro è Schermi naturali (1993). Il caso era stato, comunque, ricondotto ad un suo pensiero.”

Anche una tua recente pubblicazione prende ispirazione dagli Schermi di Mauri: On Screens – Homage to Fabio Mauri (1926-2009). ..

“L’idea di una pubblicazione sul lavoro di Fabio inizia a maturare durante il mio periodo di insegnamento a scuola. Ho partecipato a molti corsi di formazione sulla costruzione di libri didattici con il gruppo Artebambini, oltretutto editori. Con loro ho appreso varie tecniche e da lì l’idea di pubblicare un piccolo libro che ho descritto in questo modo:

Schermo-Disegno del 1957, Disegno schermo fine e Schermo con pubblico del 1962 insieme a Schermo THE END sono le opere di Fabio Mauri che hanno ispirato questo schermolibro. Con le parole The End e Fine, la fascia nera, lo schermo nero con angoli arrotondati e le sagome nere del pubblico, serigrafati su acetati e collocati su ogni pagina, è possibile comporre le opere citate, ma subito dopo scomporle, voltando le pagine, componendone di nuove e ispirate alle originali. Ed ecco che lo schermolibro si trasforma in uno schermocubo, schermoplastico o schermodinamico”.

Questo libro, senza testo, vuole essere lo spunto per una riflessione sul lavoro di Fabio Mauri e nelle varie presentazioni è diventato il pretesto per laboratori rivolto a piccoli ed adulti dove ognuno può realizzare il proprio libro On Screens.”

Quindi hai sviluppato delle attività didattiche sull’opera di Mauri.

“In realtà non sono stato io a intraprendere questa strada, ma è stato proprio Fabio a indicarmi la direzione. Cerco di spiegarmi meglio. Durante i primi anni che insegnavo ho avuto una collega di arte che ai propri alunni, che dovevano preparare un argomento di storia dell’arte da portare agli esami, suggerì di prepararsi sull’artista Fabio Mauri. Cominciai così anch’io a dare lezioni ai miei alunni sull’opera di Mauri, soffermandomi soprattutto su Ebrea e Che cosa è il fascismo. Ma la direzione indicata da Fabio avvenne quando nella scuola dove insegno, l’Istituto Comprensivo Alberto Manzi di Roma, insieme ai miei colleghi organizzammo una conferenza tenuta da Fabio Mauri per gli alunni di terza media. Ero un po’ preoccupato a tal punto di dire a Fabio che temevo che i nostri alunni non sarebbero stati in grado di comprendere il suo lavoro. Fabio mi disse … “Non preoccuparti! Saprò come parlargli del mio lavoro”: I ragazzi ascoltarono attenti e concentrati per tutto il tempo, fecero anche delle domande che stupirono l’artista. Fabio seppe parlargli in modo adeguato. Fortunatamente quell’anno avevo tra i mie alunni uno appassionato di videoriprese e registrò tutta la conferenza. Fabio, involontariamente o forse no, ci ha lasciato una metodo per raccontare la sua opera ad un pubblico di ragazzi molto giovani.”

Nei lunghi anni di frequentazione quasi quotidiana con Fabio Mauri, qual è stata la sua lezione?

“La cura per il dettaglio è sempre stata una peculiarità del suo lavoro. Amo tutti i suoi lavori, ma ce n’è uno che mi lascia molto pensare. Anche rispetto a quello che dicevamo all’inizio di questa chiacchierata. Il titolo è Appendiarte (1996) una lastra di ferro dove ci sono spunzoni di metallo posizionati in maniera regolare, a cui si appendono degli oggetti. Il successivo è Zia Ines (1997) che vuole essere il ritratto di sua zia, non sulla base dalla fisionomia di un volto, ma attraverso gli oggetti legati alla memoria di lei. Questo è stato un grande insegnamento per me, il poter lavorare sulla memoria in maniera indiretta. Del resto tutto il lavoro di Fabio è un percorso sulla memoria, iniziando da Che cos’è il Fascismo ed Ebrea (1971). Non è stato facile, per me, entrare nel mondo dell’arte concettuale. Ci sono entrato lentamente, forse anche in maniera inconsapevole. Ancora oggi continuo ad imparare dal lavoro di Fabio, perché come ex assistente e collaboratore dello Studio Fabio Mauri che si occupa del suo lavoro, ci troviamo quasi ogni giorno a metter mano ai suoi scritti, fotografie, lavori, affiancando studiosi intenti ad approfondirlo. Questo mi capita anche nell’Archivio di Elisabetta Catalano, con cui sto pure collaborando. Elisabetta è stata accanto a Fabio per tutta la sua vita, documentando fotograficamente ogni momento, oltre che realizzare opere fotografiche, scelte da entrambi, come icone delle più importanti performance di Fabio: Ebrea (1971) e Ideologia e Natura (1973), solo per citare le più note. Lì, in particolare, ho la possibilità di scoprire opere che non conoscevo, nelle mani di collezionisti, non ancora presenti nel catalogo di Mauri. Per tornare al nostro rapporto c’è stato, certamente, un legame fortissimo. Fabio si divertiva a descrivermi con degli aforismi. In una dedica di un catalogo, mi scrisse – ma, forse, in quel periodo dovevo avergli fatto qualcosa di particolarmente antipatico –al dispettoso microminiaturista”. E’ tristissimo, ma nello tesso tempo, sono contento che quando ha esalato l’ultimo respiro eravamo lì con lui. Io e Marcella eravamo sul divano in camera da letto, Elisabetta (Catalano) seduta a su una poltrona e il fratello Achille in piedi insieme a noi. Nella mia vita non era mai capitato di essere così vicino ad una persona che ci stava lasciando. Subito dopo, ricordo di aver telefonato, in lacrime, a mia madre. Lei mi disse di fare tutto quello che c’era da fare, perché Fabio era stato come un padre per me.”

Un ricordo allegro, per concludere?

“I nostri compleanni, che erano molto allegri! E’ particolare, ma io e Fabio siamo nati nello stesso giorno: il 1° aprile. Fabio nel 1926 ed io nel 1962. I numeri sono invertiti! Di ciò esiste anche una nostra opera, realizzata e firmata da entrambi. Uno schermo dove è inciso “il 1 aprile”. Ognuno di noi l’ha firmato. Ogni tanto festeggiavamo insieme il nostro compleanno, in particolare quando capitava in un giorno feriale. Ricordo una volta in cui stava preparando la mostra Io sono un Ariano, che è il contraltare speculare di Ebrea con tutta una serie di oggetti come Cuscino ariano, Radio ariana, Gomitoli ariani… A casa c’era Cecilia, la domestica, che cucinava per tutti. Fabio ci invitò a pranzo e non sapendo cosa portare, alla fine decidemmo per una torta rettangolare, a forma di schermo, su cui facemmo scrivere “questa torta è ariana”. In una foto che scattammo, Fabio è sorridente, ha la torta tra le mani e guarda l’obiettivo.”

Roma, 3 luglio 2016.

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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