La profondità del moderno e il suo contrario.

Anna Uddenberg

Prendo in mano il catalogo di Manifesta 9  tenutasi a Genk nel 2012 -: The deep of the modern. A subcylopaedia. Quattro anni sono passati dalla mostra curata da Cuauhtémoc Medina e dagli assistenti Katerina Gregos e Dawn Ades (si veda, su questo sito: Fabio Pinelli, articolo in Archivio http://www.artapartofculture.net/2012/10/31/archivio-approfondimenti-ottobre-2012-insights-archive-october-2012/ n. 22): forse ultimo episodio curatoriale di rilievo tra luogo geografico – un ex impianto minerario belga- e archivio dell’anima.

Faccio un raffronto con ciò che si è concluso da non molto: il 18 settembre 2016. Mi riferisco alla nona edizione della Biennale di Berlino. Lavoro curatoriale di equipe e il cui merito – forse neanche tanto cosciente – è stato quello di rompere con la dittatura della nostalgia nell’arte contemporanea; una nostalgia che – come scriveva Svetlana Boym nel bel saggio del catalogo di Manifesta 9 – Nostalgia and it’s discontents – corre sempre il rischio di edificare un mitico e pernicioso passato irto di baluardi nazionalisti, dove romanticizzare con le proprie fantasie diventa più un’Arcadia reazionaria e autoriferita senza spirito critico riflessivo.

In questi ultimi 15 anni il motto neo-romantico di molte biennali sembra esser stato: ricostruisco la memoria quindi sono (valido).

Ecco: tutto questo nella nona biennale di Berlino non si è visto. Non siamo stati ricattati da lavori sentimentali di mail-art, da cartoline spedite 50 anni fa da Israele alla Svezia trovate dall’artista e ricostituite in una vetrina, non abbiamo dovuto sottostare alla infinita esegesi di diari rinvenuti in qualche anfratto di un paese dal passato totalitario e riportati alla luce impudicamente e soprattutto senza chiedere il permesso a nessuno, non abbiamo dovuto subire ed essere forzati ad interessarci a performance che riattivano faticosamente la nostra memoria nei confronti di qualcuno colpito da meritato oblio. No, tutto questo non è accaduto. La dittatura è però stata di un altro ordine. Quasi tutti i lavori erano interessati da un unico e monotono riscontro estetico derivato dal Web. Una narrativa cosiddetta post-internet, superficiale e banale eredità del post-moderno, si erge a sistema e si fregia di aver Il monopolio del distopico, condito di effettacci ganzi e moderni.

La scelta dei lavori commissionati per questa nona edizione berlinese non sembra trovare alcun tipo di comunicazione se non nella ininfluente e piccola modalità di maniera e ad alto grado di brandizzazione.
The present in drag – così l’incipit della mostra – è un presente che si traveste ma senza nessun fine di resistenza. Al massimo sa farsi un selfie. A chi giova se non all’industria dell’intrattenimento?

Cosa rimane di una mascherata senza metafora?

I DIS, collettivo curatoriale newyorkese che ha diretto la kermesse, formato da Lauren Boyle, Solomon Chase, Marco Roso e David Toro, lanciato nel 2010 come “post-Internet lifestyle magazine”descrive il presente come “Un istruttore di spinning che cerca di perseverare nonostante la sbronza (Like a spin class instructor trying to power through a massive hangover)”.  Ottimo proposito per rompere con una narrativa e promuoverne un’altra, ma ciò che persevera in questa biennale è la celebrazione dell’irriflessivo e dell’anomico, un’afasia cerebrale da zapping in rete: da una finestra ad un’altra, da un’immagine a un’altra, da una bufala all’altra, tutto scandito da 140 caratteri e possibilmente subito.

Wu Tsang -Duilian
Wu Tsang -Duilian
Wu Tsang -Duilian
Wu Tsang -Duilian

Prendiamo Duilian, il lavoro di Wu Tsang visto nella sede ovattata dell’Institute for Contemporary Art -KW, sulla Auguststrasse: una romanza fiction tra la poetessa rivoluzionaria Qiu Jin – condannata a morte nel 1907 e interpretata da Boychild- e la calligrafa Wu Zhiying. Il video ambientato nel Victoria harbour di Hong Kong ha l’intento di creare una palingenesi di identità, una sorta di Orlando alla Woolf, ma rimane appiattito da un sapore posticcio e da una nostalgia melò. L’immagine e i personaggi sono lasciati alla mercé di una ricerca frettolosa, i protagonisti storici sono solo abbozzati a grandi linee e il risultato è marcatamente televisivo, non dissimile da una citata fiction, seppur di buona qualità. L’unico ma insufficiente appiglio è la trasposizione proiettiva di slittamenti identitari queer dei due performers.

Pochi i lavori che risultano intellettualmente o emotivamente coinvolgenti nelle quattro sedi visitate. La sede della ESMT, una scuola di economia corporate nell’ex palazzo governativo della DDR a Schloss Platz, si visita velocemente.

Il collettivo artistico arabo GCC
Il collettivo artistico arabo GCC
Il collettivo artistico arabo GCC
Il collettivo artistico arabo GCC

Più evocativo l’ambiente coi grandi vetri piombati dell’epoca socialista che la narrativa futuristica del collettivo di Dubai  – GCC – risolta in un calco in resina di una donna dei paesi del golfo che come un guru impone le mani su un bambino.

Hito Steyerl, nella sede della ADK Akademie der Künste, risponde con un buon lavoro dove almeno si intravede e si percepisce spessore. Un respiro sincretico di tre epoche metastoriche intrecciate trapela dalla regia dell’artista bavarese (Monaco 1966).

Hito Steyerl
Hito Steyerl
Hito Steyerl
Hito Steyerl

I suoi video aprono futuristicanente attraverso l’immaginario e il possibile, unici lavori che davvero dinamizzano contesti orwelliani, senza basarsi su suppellettili ed apparati tecno-acustici. Lasciamo stare la scenografia teatrale della sala;  i lavori di Steyerl funzionano anche senza. Quelli di Ryan Trecartin no.

 Ryan Trecartin e Lizzie Fitch
Ryan Trecartin e Lizzie Fitch
 Ryan Trecartin e Lizzie Fitch
Ryan Trecartin e Lizzie Fitch

Come Wu Tsang, altra icona della scena losangelina, Ryan Trecartin e Lizzie Fitch ripropongono i loro personaggi tecnologicamente dissociati in preda a frenesie narcisistiche con parrucche e lenti a contatto. Solito montaggio sincopato, solita lacera ambientazione da trailer park con soppalchi, soliti personaggi con mossette alla Nicki Minaj, solito tutto, pure il linguaggio. Niente di diverso da ciò che conosciamo di Trecartin: ma senza le grandi scenografie della 55ma Biennale di Venezia, il re è nudo.

In questa Biennale nessuna nostalgia o longing, ma solo belonging. Possesso.

Anna Uddenberg
Anna Uddenberg
Anna Uddenberg
Anna Uddenberg
Anna Uddenberg
Anna Uddenberg

Possedersi nell’immagine: è quello che accade alle manichine contorte e agit-prop di Anna Uddenberg; si fanno selfie alla vagina, immortalandosi in provocazioni derivative di certe opere di Rebecca Warren e Sarah Lukas.
Molti i lavori video filmati da droni. L’immagine è ovunque e pervasiva, ma il presente ci sguazza e scimmiotta più che guadagnarsi una via d’uscita alternativa.

Cécile B. Evans
Cécile B. Evans
Cécile B. Evans
Cécile B. Evans

Nel lavoro di Cècile B. Evans, What the heart wants la narrazione è demandata alla grafica computerizzata vintage. Il contenuto è totalmente in secondo piano. In un dialogo tra voce narrante, una memoria del 1973, una cellula immortale e un collettivo operaio formato esclusivamente da orecchie (!). Dovremmo riflettere sul rapporto tra macchina ed emozione, sulla costituzione ontologica nell’epoca del digitale, la partecipazione umana e l’Hyper che la sovrasta (una volta si sarebbe detto Grande Fratello); peccato che dopo il Chaplin di Tempi Moderni, Tatie di Playtime, Huxley, Orwell, Blade Runner, e Ballard il risultato è qui semplicemente ridicolo. L’immagine grafica pre-internet risulta essere semplicemente merce modaiola per assetati di nostalgia.

Non facciamoci illusioni, a Berlino siamo stati ancora intrappolati in questa eredità. Di un’estetica archivistico-ossessiva rimane solo un’affannosa accumulazione di prodotti e beni.

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Fabio Pinelli è laureato in semiologia dell’arte contemporanea con una tesi sulla prassi archivistica nella storia dell’arte tedesca da Aby Warburg a Gerhard Richter. Dal 2001 si occupa di visite culturali nei musei e gallerie di Roma nonché della stesura di contributi critici per periodici specializzati e alcune mostre di artisti contemporanei. Tra le più recenti: “Fuoriluogo” appuntamenti fuori dall’(h)-abitato.

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