#scattiemigranti 5. Essere umani di Paolo Zardi sulla foto di Edoardo Montenegro

È nato da un’idea della scrittrice (e nostra collaboratrice) Cetta De Luca, il contest fotografico dedicato alle migrazioni. #scattiemigranti il titolo, il web la piazza su cui raccogliere le proposte. Libere le modalità di proposta: potevano essere foto antiche di migrazioni lontane nei secoli, oppure attuali di cui abbiamo sempre meno orrore, o anche quelle che compiono gli italiani per trovare spazi migliori in altre nazioni. La pubblicazione su art a part of cult(ure) il “premio”.
Ne sono arrivate molte; una giuria formata dai fotografi Claudio Drago, Gianrigo Marletta e Carlotta Valente, dalla ideatrice Cetta De Luca e dalla giornalista Isabella Moroni ne ha scelte sette.
Ma il gioco del concorso non finiva qui. Le sette fotografie vincitrici sono poi state “affidate” a scrittori e poeti che, ispirandosi all’immagine, hanno scritto una storia, una poesia, una lettera, un testo…

Questa fotografia di Edoardo Montenegro dal titolo Torino 2013 – Fine del Ramadan nelle ex ferriere FIAT di Parco Dora è stata affidata a Paolo Zardi che ha scritto un racconto intitolato Essere umani.

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ESSERE UMANI

Due anni anni fa, con un braccio stretto attorno al corpo magro di mio figlio, in una mattina di settembre,
sotto un sole caldo e incredibilmente luminoso, a tremila chilometri dalla mia terra, immersa nell’acqua fino
al collo, la bocca piena di sale e i vestiti che mi trascinano giù, a cento metri dal barcone che sta affondando
come una balena nel mare scuro, tre minuti dopo aver perso il contatto visivo con mio marito, la gamba
destra che mi sembra rotta, senza più scarpe, senza più velo, il ricordo della mano di mia sorella che indica il
mio viso – l’altra dieci metri più in là, tra le macerie delle sua casa – un minuto dopo che ogni cosa era finita,
mio figlio che si stringe a me per non morire, i lamenti che piano piano si spengono, cullata dal moto ondoso
della morte, ancora vicina al tempo in cui ero stata felice, così vicina da riuscire a ricordare il tepore del mio
letto, il profumo della mia cucina a ora di cena, del fetteh croccante appena grigliato, così lontana da
rimpiangere perfino la carne di montone che da bambina mi rifiutavo di mangiare, mentre i corpi degli
uomini si scontrano sulla superficie dell’acqua, tra la spuma delle onde, i visi rivolti verso il basso come
pescatori di perle che scrutano il fondale, io mi domandavo in che momento avevo rinunciato a pensare:
sono un essere umano. Era stato quando la nostra casa era crollata, seppellendo metà della mia famiglia, o
quando, cinque minuti dopo, un bambino di dieci anni mi aveva puntato un fucile in faccia, dicendo che mi
avrebbe sparato perché ero una donna? Aveva il viso concentrato che hanno i bambini quando d’estate
perlustrano i vicoli ombrosi in cerca di formiche da uccidere, mentre i genitori si riposano dopo pranzo… E io
ero là, davanti a lui, a pochi metri dalle macerie di casa mia, con la mano di mia sorella che indicava il mio
viso, e avevo perso tutto, e il bambino insisteva a puntarmi il fucile in faccia, come se non esistessi – ma non
mi ha sparato, e io ero viva, e pensavo di essere ancora un essere umano. Poi nascosta tra le casse di un
camion, trasportata, scaricata, spostata, lanciata, incastrata, proteggendo con il mio corpo quello di mio
figlio, pensavo: non è così che fanno gli esseri umani per salvare la vita delle persone che amano? E poi in
mare, senza nemmeno lo spazio per respirare, il ponte della nave ricoperto di urina feci e vomito, ancora
pensavo: presto torneremo ad avere una vita, qualche anno davanti, un posto dove stare… Poi l’acqua in
bocca, mio marito inghiottito dalle onde, mio figlio aggrappato al mio corpo, la gamba destra che mi sembra
rotta, senza più scarpe, senza più velo…
Sono passati due anni. Qualcuno mi ha tirato fuori dal mare, senza chiedermi niente in cambio. Ho fatto altri
chilometri, e non mi sono più domandata dove stavo andando. Ora ho qualcosa che assomiglia a una casa,
qualcosa che assomiglia a una vita. Mi manca ogni singola cosa che ho perso – lo specchietto con il bordo
dorato nel primo cassetto del bagno, il colore del sole quando al tramonto attraversava le tende della mia
camera, il cigolio della porta di ingresso quando la sera tornava a casa mio marito. Sto imparando una nuova
lingua, una parola alla volta. È come essere tornata a scuola. Mio figlio sta diventando grande e ogni giorno
sembra un po’ più italiano. Chissà se ricorda qualcosa di quando era bambino… Oggi è finito il ramadan. Qui
posso continuare a essere musulmana: qualcuno mi guarda storto, ma nessuno mi ha mai puntato un fucile
in faccia. Il sole è luminoso e caldo. Qualche volta, specialmente la sera, poco prima di andare a dormire,
penso che, in fondo, il soffrire passa; l’aver sofferto, invece, non passa mai. Ma non è così che succede agli
esseri umani?

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