#scattiemigranti 7. Diadema blu di Stefania Auci sulla foto di Isidoro Vasta

È nato da un’idea della scrittrice (e nostra collaboratrice) Cetta De Luca, il contest fotografico dedicato alle migrazioni. #scattiemigranti il titolo, il web la piazza su cui raccogliere le proposte. Libere le modalità di proposta: potevano essere foto antiche di migrazioni lontane nei secoli, oppure attuali di cui abbiamo sempre meno orrore, o anche quelle che compiono gli italiani per trovare spazi migliori in altre nazioni. La pubblicazione su art a part of cult(ure) il “premio”.
Ne sono arrivate molte; una giuria formata dai fotografi Claudio Drago, Gianrigo Marletta e Carlotta Valente, dalla ideatrice Cetta De Luca e dalla giornalista Isabella Moroni ne ha scelte sette.
Ma il gioco del concorso non finiva qui. Le sette fotografie vincitrici sono poi state “affidate” a scrittori e poeti che, ispirandosi all’immagine, hanno scritto una storia, una poesia, una lettera, un testo…

Questa fotografia di Isidoro Vasta dal titolo Da Lampedusa a… è stata affidata a Stefania Auci che ha scritto un racconto intitolato Diadema Blu.

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DIADEMA BLU

Il cielo è impastato, l’aria pesante. Palermo è avvolta nel calore di un luglio stanco, in procinto di sciogliersi nei giorni d’agosto.
Aimee arretra dal ciglio della strada. La sua pelle nera si confonde con l’ombra. Ha le gambe gonfie, il sudore che le sigilla la canottiera sulla schiena, la pelle martoriata dalle zanzare.
Eppure Aimee canta. La bocca è socchiusa,  gli occhi assenti.
A volte, la ragazza ha la sensazione di fuggire dal corpo per rifugiarsi nella pelle di qualcuno che, un tempo, era stata lei: un guscio estraneo e familiare.
È altrove.
Ora è in un ricordo che profuma di foresta. Accanto, sua sorella Meeria: due bambine che inseguono le farfalle dalla livrea blu e oro. Farfalle diadema, le chiamano. Un’immagine luminosa in cui tutto è pulito, fuso dal calore e dalla distanza.

La realtà la risucchia indietro con uno stridio di gomme di una Punto.
Aimee si avvicina.
Non è diverso da tutti gli altri: sulla mezza età, maglietta, jeans sdruciti ad arte, , un pizzetto appena ingrigito. “Sali?
La ragazza batte la mano sullo sportello. “No, no. Noi qua dietro.
Il suo italiano è stentato. Indica lo spiazzo tra le piante alle sue spalle: la terra è segnata da decine di solchi di pneumatici. L’uomo esita. “Dalla strada si vede la targa e la macchina. No, sali tu.
Aimee non si fida. Però pensa a quanto poco ha guadagnato, alle sigarette spente sul seno, alle cinghiate.
E sale.
Sudore, fastidio. L’uomo si muove dietro di lei. Gli occhi di Aimee sono vuoti; nelle orecchie, il rumore colloso di pelle che sbatte contro pelle.
Esce fuori dal corpo, lo guarda con rassegnazione. Scivola oltre, precipita nella sua memoria. Ma si ferma presto: pochi mesi sono trascorsi. Una vita intera.

Il Mediterraneo è una tavola di vetro.
Lei e Meeria sono sedute sotto una lamiera sorretta da tronchi, insieme a tanti altri, esauste ma vive.
Meeria si massaggia la fede. Lei, con il ventre orfano di un figlio ammazzato insieme al marito, ha deciso di abbandonare il villaggio distrutto. Ha chiesto a Aimee di seguirla.
E quindi, via dalla Sierra Leone fino alla Libia, tenendosi per mano attraverso una pista segnata da ossa, abiti stracciati e scarpe sfondate, testimoni di passi perduti. Avevano viaggiato di notte, sotto il sole, a piedi, in carovane, stipati in centinaia in cassoni roventi. Passavano di mano in mano come casse di frutta e come frutta alcuni di loro marcivano. Cadevano di schianto, restavano sulla pista a farsi mangiare da mosche e cani randagi.
L’ultimo tratto lo avevano percorso in un camion frigorifero. Là dentro, alcuni erano soffocati. Poi erano arrivati a una spiaggia. Avevano seppellito i cadaveri e si erano seduti, sorvegliati da uomini armati.
Aimee è rimasta con Meeria. Aveva temuto di morire in quel viaggio così tante volte da pensare di essere di essere il sogno di una persona già morta.
Ora erano in attesa, la mano sulla fronte, gli occhi pieni di curiosità e desiderio.
Se lo ricorda bene quel giorno perché, dopo le onde del deserto, adesso poteva vedere il mare, e sentirne l’immensità che le saltava alla gola.
Invece, non riusciva a ricordare le facce dei suoi compagni. Di loro rimanevano le voci, gli odori, il brusio che si assottigliava quando i sorveglianti si avvicinavano.
Dal sentiero, il rombo di un fuoristrada. Scese un uomo, un bianco che rideva e storpiava le parole in un misto di francese e dialetto. Lei, come le altre donne, aveva abbassato lo sguardo. Dai discorsi sussurrati sapeva che non si dovevano mai guardare in faccia i signori. Non un gesto, non una parola di troppo.
L’uomo, invece, le aveva studiate con attenzione mentre discuteva con quello che sembrava il capo dei trasportatori.

Pochi minuti dopo, un gommone si accostò alla spiaggia. Gli uomini con le armi li fecero alzare e li spinsero con i fucili verso il gommone, stipandoli gli uni sugli altri. Meeria le afferrò la mano. “Abbracciami” le disse. “Non mi lasciare.
Braccia le strapparono l’una dall’altra.
Attorno, altri pianti. Una ragazza scalciava, trascinata per i capelli verso il fuoristrada; un’altra separata a forza dal marito, che aveva provava a difenderla ed era stato picchiato con il calcio del fucile. Gli altri gridavano, tendevano le mani mentre venivano imbarcati a forza.
Aimee cercò disperatamente Meeria, invocò il suo nome. L’ultima cosa che vide fu il sangue che sgorgava dalla tempia di quell’uomo.
Sul fuoristrada, gli uomini le picchiarono ancora. Il bianco guidava, parlava  a voce alta, diceva di andarci piano con i colpi, di non rovinarle.
Le portarono in un capanno. Vi rimasero per più di una settimana.
Era stato lì che Aimee aveva abbandonato il suo corpo per la prima volta. Era tornata nella foresta. Correva quasi senza toccare terra. Attorno, decine di farfalle blu.

L’uomo addosso a lei ha finito. La riaccompagna dove l’ha caricata; le lascia dieci euro, perché tanto costa una scopata. Riparte sgommando.
Aimee riannoda la fascia sui capelli. Nulla la fa sentire più nuda che non avere il velo, e cerca sempre il modo di coprirsi
Sbircia lungo la strada. Delle sue compagne non c’è traccia: né di Veronica – così l’ha chiamata il magnaccia – che ha quindici anni; né di Pamela, che di anni ne ha 40.
Nessuna di loro è quella di prima.
Lei per esempio, è Jessica. Il pappa che le tiene in casa a Ballarò e si prende i loro soldi, le ha cambiato nome non appena arrivata a Palermo. Non vuole avere problemi con gli sbirri, ha spiegato dopo aver provato la merce alla presenza dell’uomo che l’aveva rapita in Libia.
Se poi gli sbirri vogliono un favore, voi glielo fate. Avete capito? Che è meglio un pompino o una fottuta in più che una notte in questura
Aveva fatto una carezza a Veronica che ancora piangeva. “E non pensate di fare le furbe. Pagate i debiti che avete fatto per venire qui e potrete andarvene. Tanto, che spese avete? Vestiti, cellulari, medicinali, vi do tutto io. C’è Paolino vostro che ci pensa.” Aveva stretto in una morsa la faccia di Veronica, e lei aveva singhiozzato. “Ma non pensate di potermi fottere. Perché se solo ci provate, v’ammazzo.

Paolino ora è lì davanti, in una Uno con lo sportello tenuto in piedi dallo scotch. Lei sale in auto mentre una ragazza nigeriana scende. Nell’abitacolo, odore di deodorante e Merit.
Quanto hai fatto oggi?
Poco. Non ci sono tanti…
Di nuovo sta’ scusa? Non è che ti freghi soldi, eh? Che ti devo strappare i vestiti per vedere dove li nascondi?
No, no. Giuro… tieni, sono tutti.
Allunga alcune banconote accartocciate che lui afferra. Le conta. “Una miseria! Possibile che manco ti impegni a mettere fuori quel culo di africana del cazzo che hai?
Aimee si stringe la borsa al petto e trema.
L’uomo riparte a tavoletta. Imbocca un sentiero che si apre sul viale, arriva a uno spiazzo chiuso tra i lecci. Quando la macchina si ferma, Aimee prova a scappare ma l’uomo è veloce, troppo. L’afferra per i capelli, le strappa la fascia.
Pure scappi? Sei veramente una stronza, sei!
Aimee sa che non conviene reagire. Si rannicchia, e basta.
Pugni nello stomaco. In faccia no, perché i clienti si spaventano o cominciano a fare domande. Piano con la schiena, se no non può stare troppo in piedi e crolla a terra come è successo a un’altra l’anno scorso. Le sbatte la testa a terra fino a che un rivolo di sangue non esce dalla bocca di Aimee, ormai immobile.
Ora te ne torni a casa a piedi, hai capito?  Non fiatare, non ti puoi permettere di portarmi manco cento euro in un pomeriggio.”
La ragazza non risponde. Le pupille sono fisse sul cielo striato di viola.
L’uomo le da un calcio alla gamba. In risposta, un gemito. “Viva sei. Non fare tutta sta’ sceneggiata, muoviti.
L’auto sgomma.

Aimee è rimasta sola.
Il mondo è sfocato. Dal terreno arrivano onde di calore. Il respiro è corto, fa male. Una costola deve essersi incrinata. La lingua di Aimee bagna le labbra con un misto di saliva e sangue.
Da quando l’hanno messa sulla strada, non è più riuscita a piangere.
Ma in quel pomeriggio, la sua anima è tornata. Le ha permesso di guardarsi per ciò che è: un corpo instupidito dalle percosse. Il seno segnato da cicatrici. Un sesso saccheggiato e slabbrato.
Comincia a piangere. Piano, senza singhiozzi: il torace le manda lampi di dolore, si sente soffocare. Ha paura e bisogno di lasciare di nuovo il corpo per non tornarci più. E più piange, più aumenta la fame d’aria.
Invoca sua sorella, la sua famiglia. Gli alberi stormiscono, la nascondono nella loro ombra; poco lontano, auto corrono suonando i clacson.
Non riesce più a tenere gli occhi aperti. L’incoscienza è lì ad accoglierla, l’oblio è l’abbraccio di una madre.
Avverte a malapena il tocco di minuscole zampe che le lambiscono la fronte. Forse è un’ape, pensa nel residuo della coscienza che ancora resiste. Vorrebbe scacciarla ma non ne ha la forza e in un istante capisce che presto non avrà più forze per nulla.
Dalle ciglia rotolano giù lacrime.
Altre zampe più lievi si uniscono alle prime.
È un tocco lieve, una carezza che asciuga il pianto. Attraverso le palpebre scorge un baluginio di nero e azzurro. Sposta lo sguardo sopra di sé.
Decine di ali blu si tuffano nella radura attraverso i rami, un vortice che si scioglie attorno a lei. Le farfalle delle sue foreste le disegnano un velo sui capelli, la rivestono come una regina.
Vorrebbe muoversi, Aimee, e ringraziarle. Sente il respiro raggrumarsi nella gola, apre la bocca per inseguire l’aria. Una farfalla, la più grande, si posa sulle labbra.

Due giorni dopo, nel cortile di un centro di accoglienza in Calabria, una donna lava i suoi panni in un catino. Lava, e canta, e piange mentre lo fa. Gli altri la guardano, si stringono nelle spalle. Tutti hanno un dolore per cui cantare lì dentro.
Meeria strizza la tunica. Stende gli abiti sulle sbarre della ringhiera; manca l’ultimo quando si accorge che un grosso insetto si è posato sul velo azzurro che apparteneva ad Aimee. Fa per scacciarlo ma quello la precede. Si alza in volo e appaiono due enormi ali blu striate di nero.
La fissa, è senza fiato. “Il diadema blu” mormora. La guarda danzare sulla sua testa, giocare con le sue dita.
La guarda andare via, nel vento, oltre il filo spinato.

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