Ciao, Dario Fo.

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addio-a-dario-fo-muore-a-90-anni-il-premio-nobel-per-la-letteratura-sabato-a-milano-lultimo-salutoPerché la verità sia allegra, il cuore deve essere leggero, allora quella verità traspare e, senza sembrare inquietante, diviene liberatoria: specie se è fatta di conoscenza, di studio, di passione.
D’irruenza, talvolta, ma si sposa generosamente con tutte le genti… e sa far sorridere.

Questa considerazione è la prima ad attraversarmi la mente, mentre apprendo della scomparsa di Dario Fo. E mi sembra impossibile parlare di questo drammaturgo e della sua opera, senza avere la sensazione di limitarne l’essenza: un artista genuino, saltimbanco, incantatore; al pari di un filtro magico, così le favole del suo teatro, esilaranti tanto che a comprimerle tutte non ci stanno, appassioneranno ancora nei tempi a venire.

L’amore per la logica, per la conoscenza non elitaria, tutta la fiducia che questo drammaturgo riponeva in quello che non doveva essere taciuto, nel suo lavoro, impegnato non solo a denunciare, ma a restituire speranza, tutto questo costituiva la sua allegra libertà...

Perché io non abbia potuto assistere, lo scorso maggio, al suo seminario ad Alcatraz (la città modello reinventata dal figlio Jacopo), ancora non lo so. Non sarebbero state solo delle lezioni sul teatro, perché Dario Fo era un artista poliedrico: autore di testi teatrali, attore, cantante, ma anche scenografo, regista, illustratore, attivista e, come amava definirsi, giullare.
Me ne dolgo, come di un’opportunità perduta per sempre. Forse la prima della mia vita, che apre quel capitolo delle cose “mai fatte e che si sarebbero volute fare”. Avremmo anche dovuto parlare di un suo progetto cinematografico, grandioso, come molte delle sue idee…

Di certo avrei appreso l’entusiasmo di quelle rappresentazioni straordinarie, che reinventava ogni volta. Una satira sferzante che spingeva oltre un confine troppo spesso delimitato, e, nel farlo, Dario Fo sapeva essere lieve e fragoroso insieme: dischiudeva piano, piano la verità, sicché potessi coglierla da te solo. E lo sentivi gioire della tua sorpresa.

Come nell’opera Mistero buffo, sintesi dei motivi fondanti del suo teatro, dove la vivacità della tradizione orale dei testi popolari padani, si mescolava ai riferimenti alla contemporaneità, coniugando intelligenza interpretativa a sagacia ispiratrice. E, a ben guardare, la capacità di rinnovarsi e rendersi attuale, ma coerente con sé stesso, esprimeva la profondità dell’elaborazione; anche la censura, imposta alle sue rappresentazioni e le denunce, pur angustiandolo, non poterono scoraggiarlo.

Fermare la diffusione del sapere è uno strumento di controllo per il potere perché conoscere è saper leggere, interpretare, verificare di persona e non fidarsi di quello che ti dicono. La conoscenza ti fa dubitare. Soprattutto del potere. Di ogni potere”.

E se la motivazione del conferimento del Premio Nobel, nel 1997, recitava: “Perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”, non si può dimenticare la sua capacità di trasmutare la realtà in racconto e, attraverso questo, educare.

Prova ne sono i suoi canovacci, che non cessava mai di rielaborare, sempre soggetti a quel gioco di improvvisazione che rende lo spettatore partecipe ed attento.

Ecco perché ripenso con nostalgia a quei giorni di maggio 2016, che non torneranno più.

Ed è impossibile non ricordare assieme a lui Franca Rame, la sua compagna di una vita, scomparsa solo tre anni fa, a cui Dario Fo aveva dedicato la sua opera, ricordando come avessero percorso assieme le vie del mondo, inventando, scrivendo, rappresentando e cantando, come teatranti saggi e folli al contempo.

Provate ad ascoltare il Monologo della creazione di Eva ed Adamo, che Franca aveva voluto al femminile: tutto il significato e la profondità del loro rapporto, possono essere intesi immediatamente.

Ed anche negli ultimi momenti della sua esistenza, durante quei pochi giorni di ospedale, Dario Fo aveva trovato la forza di intonare una canzone, perché la sofferenza ed il dolore non intaccassero la sua voglia di comunicare o forse per incantare la morte.

Come aveva fatto tante volte sul palco, per deridere menzogna e viltà, esprimendosi tale qual era: un’icona in divenire, che non cesserà mai di essere un grande ispiratore, la cui gaiezza ha davvero sconfitto la morte:

“C’è una regola antica nel teatro: quando hai concluso non c’è bisogno che tu dica un’altra parola: saluta e pensa che quella gente che hai accontentato nel pensiero e nella parola ti sarà riconoscente. Ciao!”.

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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