Festa del Cinema di Roma 2016. Hell or high water. Il nuovo west tra tradizione e moderno.

In quel genere misto tra rapine in banca, dropouts criminali ed inchieste poliziesche con inseguimenti, nel più ampio respiro del western moderno, Hell or high water  (dell’inglese David Mackenzie, sceneggiato da Taylor Shendan) si colloca tra i migliori prodotti  di realizzazione cinematografica. Costruito con una doppia coppia di protagonisti (Toby e Tunner Howard per i rapinatori, Marcus Hamilton e Alberto Parker per i Texas ranger) che dialogano continuamente sulla vita e sulla morte, in una perfetta sceneggiatura, infittita di umorismo, sarcasmo, cinismo e cattiveria, ma nello stesso tempo di lirismo, solidarietà e buoni sentimenti.

Protagonisti, sia banditi che uomini di legge, che hanno trovato negli attori che li interpretano, recitazioni variamente diversificate, veramente eccezionali. Per cui un action movie, come se ne fanno tanti, con spari inseguimenti ed adrenalina si declina spesso in ottime idee e molto pathos. Con i panorami desertici ed infiniti, fatti di suoli rossi e cieli azzurri del Texas (n.d.r. girato in New Mexico) dove le ultime mandrie, accompagnate da vecchi cowboy (“i giovani non amano più questo mestiere” dicono) traversano praterie, costellate di pozzi petroliferi. Con piccoli agglomerati urbani, eredi dei villaggi di legno western, con piazze centrali squadrate in cui si affacciano Motel, ristoranti, bar, supermercati e banche. In un deserto di presenza umana e gestione delle risorse, che al di là di una sensazione di decadenza, abbandono e sporcizia da la percezione di un’America che ha finito il suo momento di sviluppo e si avvia alla fine del suo ciclo felice. Una terra che era prima degli indiani, razziata dai bianchi ed ora passata nelle mani solo delle banche e delle Corporations con il loro capitalismo selvaggio che vampirizza uomini, animali e cose.

In tale contesto solo pochi uomini, emuli di Jesse James, si oppongono alle espropriazioni dei propri ranch, coperti di ipoteche, da parte di complessi finanziari, che li vogliono trasformare in dollari estratti dall’oro nero (petrolio). Due fratelli, molto diversi, uno appena uscito di prigione (Ben Foster) irrequieto e irresponsabile, l’altro (Chris Pine), assennato ed intelligente, decidono di rapinare le piccole banche della Midland Texas al fine di raccogliere i soldi per estinguere una ipoteca sulla loro terra, per un prestito contratto per la malattia della loro madre ormai morta. Le dinamiche dei colpi sono programmate, ma l’imprevisto è sempre in agguato fino ad arrivare ad una sparatoria in cui muoiono due persone. Un Texas ranger (Jeff Bridges), prossimo alla pensione, allora si mette sulle loro tracce con il suo partner indio-messicano (Gil Birmingam). L’epilogo dopo una serie di inseguimenti per le suggestive strade, distese lungo deserti infiniti è doppio come le coppie di protagonisti. Uno scontro a fuoco sulle rocce, come nel film Una pallottola per Roy (Raul Walsh) un noir movie interpretato da Humprey Bogart, vede la scomparsa di due dei protagonisti. Gli altri due si incontrano al ranch ed in un duello incruento, in cui prevalgono i valori della lealtà e della solidarietà familiare e sociale, si allontanano per le loro strade.

A dimostrazione di come si può fare un film di genere (o di più generi) anche convenzionale, con tante idee ne stucchevoli né fastidiose e soddisfare più palati, con una sceneggiatura puntuale nei tempi e nelle cadenze. Un percorso di avventura nel solco delle tradizioni americane, dove, nelle pause intimiste, vengono fuori i vissuti dei più importanti personaggi, soprattutto quando il giorno trascolora nelle notti color cobalto e le loro ombre ballano trasfigurate dalle luci al neon dei Motel texani.

Inoltre ci sono le riuscite realizzazioni dei personaggi secondari, retaggio dei grandi caratteristi del vecchio west, con il vecchietto che porta la pistola e bofonchiando spara, le cameriere dei bar –saloon che impongono il menù di bistecche e patate arrosto (“solo nel 1989 un fesso chiese una trota” dicono) o fanno il filo al più bello (Chris Pine) ripagate con una lauta mancia. Una ex moglie impietosa e incattivita ed un teenager che ancora non sa che fare (“non essere mai come me” gli dice il padre), un comanche che gioca a poker e che spiega con grinta cosa vuol dire comanche (io, il nemico di tutti) e tutti i perfetti direttori ed impiegate di banca.

Tutto secondo un cliché, che non sa di copiato, ma rinnovato e rinfrescato da una gragnuola di battute, che danno continuamente la spinta allo scorrere del film su binari nuovi ed intelligenti, in un geniale racconto tradizionale ma moderno. All’altezza dell’ottimo esempio di  Non è un paese per vecchi di Ethan

Joel Coen. Con un epilogo struggente, ma senza troppe illusioni sulla fine dei valori, per la pericolosa prevalenza del denaro su tutto e sulla sua pericolosa circolarità (dalle banche parte e dopo passaggi più o meno leciti alle banche ritorna) che da il senso della confusione e del marcio in cui anche l’America vive.

 

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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