Le voci del silenzio hanno molto dire. Figli di un dio minore a teatro.

“Figli di un dio minore”. Ormai un’espressione archetipica, forse abusata, per definire tutti coloro che fanno quotidianamente i conti con l’avere meno del resto del mondo. I più lo ricordano come il titolo di un film che valse alla sua interprete, Marlee Matlin, un Oscar alla migliore attrice.
Non a tutti è noto che la fortunata pellicola è tratta da un’opera teatrale omonima di Mark Madoff, di cui il Teatro Franco Parenti di Milano ospita la resa italiana.

Jamesa Leeds è un logopedista, chiamato a lavorare in un istituto per sordi, dove i suoi metodi non convenzionali – che lo fanno guardare con sospetto dal direttore – sembrano sortire ottimi effetti. Con tutti, meno una. La giovane Sarah Norman, diplomata proprio in quell’istituto, che ha scelto di rimanervi per avere un futuro certo in un mondo che conosce, e in cui gli strumenti di cui dispone non sono inferiori a quelli di chi la circonda. Sarah è una donna decisa, che non vuole adeguarsi al mondo degli altri, non vuole che il suo codice sia ritenuto inferiore a quello che vige fuori da quelle mura.
James imparerà ad apprezzare la ragazza, fino ad innamorarsene, e a provare cambiare il corso del suo destino. O almeno, così crede. Dovrà scontrarsi con la consapevolezza che ciò che è giusto non lo è per tutti allo stesso modo. Niente è più semplice che attribuire arbitrariamente a una categoria uno stato di minorità, per poi tacitare la propria coscienze offrendo a chi lotta per i propri diritti come Orin, studente e amico di Sarah, nient’altro che briciole.
Mark Madoff scrisse nelle note di regia una indicazione inderogabile. L’interprete di Sarah avrebbe necessariamente dovuto essere sorda. Così è stato per la Matlin, così è per Rita Mazza, profonda e intensa interprete della versione nostrana.
Accanto a lei altri due ottimi attori, a loro volta audiolesi: Gianluca Teneggi è Orin, paladino dei diritti degli studenti dell’istituto, preoccupato che le attenzioni del professore per Sarah la distolgano dalla loro causa. Deborah Donadio invece è Lydia, studentessa innamorata del professore e gelosa del sentimento che lo lega a Sarah. A tenere le fila dell’insieme, nei panni di James Leeds, un ottimo Giorgio Lupano, cui tocca il compito del traduttore.
Non solo in scena, mentre tenta di aiutare i suoi studenti a cavarsela in un mondo che li obbliga ad adattarsi a lui; lo è anche per gli spettatori, perché l’intero spettacolo è recitato contemporaneamente pressoché nella sua interezza anche nella lingua dei segni.
Un espediente che è l’elemento cardine dello spettacolo: è infatti la dimostrazione pratica della pari dignità dei due linguaggi, cosicché anche nel formale silenzio le vicende avvengono con la stessa chiarezza.
L’uso della Lis contribuisce a far sentire, per contrasto, proprio gli udenti in difetto, fino a che non sopravviene la traduzione in parole. Stimola però lo spettatore a impegnarsi per comprendere, con lo sforzo con il quale ci si approccerebbe a una lingua straniera di cui non si padroneggiano i codici.
Questo doppio binario comunicativo contribuisce ad acuire la percezione che lo spettacolo scorra rapido, quasi torrenziale. Anche la scenografia – composta da poche panche bianche che diventano all’occorrenza letti o alberi, e da un cubo che disegna le silhouette degli spazi fuori scena – sembra quasi scomparire, assorbita dalle parole che le mani rapide e attente segnano raccontando e raccontandosi.
Una assenza di soluzione di continuità sottolineata dalla scelta del regista Marco Mattolini di non fare uscire mai Lupano di scena, lasciando che i passaggi di tempo siano piuttosto suggeriti che mostrati.

La pièce in certo qual modo sfida lo spettatore attento, e insieme gli permette di divertirsi e riflettere. Non soltanto sul mondo dei sordi, ma in generale sul modo in cui ci si confronta con il limite e chi ne è portatore.
Senza didascalismi sottolinea la superficialità con la quale osservando da fuori siamo certi di capire di poter aiutare applicando il nostro metro.
D’altro canto chiede di confrontarsi con la paura dell’ignoto, con la facilità con cui del limite si può farsi scudo per chiudersi nei limiti del conosciuto, anche davanti all’amore
Insomma, si è deciso, come Sarah, «Non faccio ciò che non posso fare bene», questo spettacolo è stato fatto con buona ragione, perché è fatto bene, ed è effettivamente in grado di offrire una occasione di arricchimento attraverso una messa in scena artisticamente di valore.

 

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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