Per strada. L’affresco di una generazione bruciata.

C’è un titolo che occhieggia a Jack Kerouac, una tormenta di neve e due uomini che nascondono segrete disperazioni: tutto perché lo spettatore si aspetti Jack London. E invece si scontra con due ragazzi di oggi. Irrevocabilmente figli della generazione che si affaccia negli anni Zero all’età adulta: quella delle scelte da compiere, in cui si diventa grandi.

Questo è Per strada, opera prima – ospitata al Teatro Franco Parenti – di Francesco Brandi, autore e protagonista accanto al giovane Francesco Sferrazza Papa.
Due ragazzi a confronto con la propria quotidianità e col senso di fallimento:  per  l’uno  è pretesto di un’auto-assoluzione, nascosto invece dall’altro dietro a ciò che deve essere fatto perché una buona famiglia e una buona posizione lo esigono.
Jack e Paul, nomi anglofoni che sono l’unico appiglio ad un altrove di cui andar fieri, in un contesto estremamente  italiano.
Il primo, il Brutto (Brandi) è un “quasi”. Quasi tante cose, studente, artista, amato. Quasi. Stanco di non essere compiuto, vuole realizzare il compimento assoluto: la propria morte.
Il secondo, il Bello (Sferrazza Papa) è un figlio di buona famiglia, pronto – forse – a sposarsi con una donna che non ama, e a salvare un uomo da se stesso, per non dover pensare a ciò che nasconde.
Così i due stipuleranno un patto che possa aiutare entrambi.

Chi si sia aspettato l’epica dell’avventura in condizioni avverse trascorre però  una lunga porzione dell’ora e mezzo di spettacolo a domandarsi che cosa sta osservando. A farla da padrone è la quotidianità più prossima, vivacizzata però da una scrittura dotata di un ottimo ritmo narrativo e da un registro  che strappa numerose risate non scontate, benché sia insistitamente dichiarato come tragico. Pare di intravedere un clown all’orlo di un precipizio,  che si accompagna con le note di Hey Jude, simbolo di un tempo che a questi ragazzi non appartiene più.
A squarciare il velo della apparente medietas, spiegandone il senso forse non immediato, interviene il più contemporaneo dei simboli: Roberto Baggio.
A lui il dichiarato morituro si confessa, chiarendo improvvisamente tutte le parole precedenti e il messaggio di questo lavoro.  Questa generazione non può essere portatrice di lotte, non ne ha, né ha la forza di compierle.  È lui, il “Divin codino”, il solo eroe concesso loro, caduto dall’Olimpo con un rigore sbagliato in una finale mondiale. Ma non per quell’errore, per aver deciso di tirarlo, facendosi artefice consapevole del proprio crollo e quindi di quello di ogni voglia di combattere in chi lo aveva esaltato.
«Noi siamo come quel rigore: inutili. Inutili, anche se ci fossimo realizzati.»
Con la certezza di fallire, anzi peggio, che la propria realizzazione sia – come quel rigore – totalmente ininfluente, a nulla vale lottare, a nulla vale tendere verso qualcosa, qualsiasi essa sia.
E allora l’attesa epica di questo viaggio sotto la neve si trova nella sua assenza.  A costituire questo spettacolo è la caduta di qualsiasi idea di epopea, e i due ragazzi con la loro recitazione naturale sono la negazione di ogni eroismo.
Non sono simboli. Sono persone concrete:  i vicini di casa, i colleghi di università, membri di una generazione già bruciata, di sconfitti in partenza.
Un fallimento descritto con schiettezza quasi  brutale da chi di quella generazione è parte, senza didascalismi e senza guardarsi da fuori. Una sincerità diretta, tecnicamente spinta quasi all’eccesso e per questo efficace.
Anche la regia, la prima prova in teatro del regista cinematografico Raphael Tobia Vogel, risponde a questa scelta. Il regista lavora sottraendo, finanche scarnificando la scena della sua concretezza. Compone la scenografia – quasi assente sul piano degli oggetti di scena – come una scatola cinese di altri media, quelli che descrivono più immediatamente l’oggi.
La scena si sviluppa su tre piani scenici, e mentre alcuni passaggi sono descritti da proiezioni prettamente cinematografiche, un velo di tulle trasporta altri brani dietro a un diaframma che appare in tutto simile a uno schermo televisivo
Una prima volta condivisa che necessita di essere compresa a diversi livelli di profondità, ma quando questo avviene si dimostra coraggiosa, perché nessuno è assolto, mentre risuona l’invito di un altro tempo:
«Hey Jude, don’t make it bad. Take a bad song, and make it better».
L’unico modo per immaginarla migliore è trovare un ultimo sussulto di coraggio e fare ciò che non si era mai neppure sognato, l’esatto opposto di quello che si era programmato, fosse anche l’ultima volta.
Senza nessuna garanzia che le cose migliorino.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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