Where the wild things were

Come se una finestra si spalancasse d’improvviso – rarefatto tanto quanto un sogno – il film di Sydney Pollack, compianto regista poliedrico, fece conoscere al mondo il libro più romantico di una scrittrice danese, che tante volte aveva sfiorato il Nobel: Karen Blixen.

Ma questa non è solo la storia di un film, né la storia di un romanzo, è piuttosto un racconto intimo che appartiene al profondo di ciascuno di noi, una favola che, prima o poi, capita di ascoltare con toni diversi e di non dimenticare per il resto della vita.
La Blixen, da parte sua, con i suoi racconti aveva illuminato di coraggio ed audacia i suoi lettori attraverso le storie dei suoi personaggi, rendendo il tempo della lettura indimenticabile e pieno di poesia. Fu così per la novella Il pranzo di Babette, da cui fu tratto il fortunato film omonimo. Che si tratti dell’amore per un uomo, di un pranzo regale, come pure di un ideale, di un libro o di un film, poco importa: nel ricordo sono simili a meteore che illuminano i giorni della nostra vita, lasciando una sensazione che si riassapora nel tempo.

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Out of Africa
Così fu per quei ricordi della Blixen, trascritti nella tavolozza di colori di un vecchio film, ancora affascinante ai nostri giorni, dopo più di 30 anni.
E pur se nella prima sequenza traspariva una silhouette di uomo indistinta sull’orizzonte africano, davanti al sole morente, non immaginavi subito che fosse emblema dell’eroismo romantico del personaggio principale, amato da Karen.
Serve tempo per capirlo, occorre forse invecchiare un po’, per comprendere che quella figura si ergeva su di un mondo, la cui memoria stava già svanendo.

Lei, la protagonista, ci appare come una voce nella nebbia e reinventa il suo amante, nei paesaggi selvaggi che diedero forma evanescente al loro amore e la cui essenza diviene la stessa del suolo d’Africa.
Lui è Denys Finch Hatton, aristocratico, aviatore ed atleta e fu un eroe ed un cacciatore bianco. E al momento in cui la incontriamo, lei è Isak Dinesen, una story teller o meglio una cantatrice di sogni. Ma dopo questo momento, diventa la baronessa Karen Blixen, che nel 1913 scambiò i soldi di famiglia per un titolo nobiliare, una fattoria in Kenya e 17 anni di esperienza che, distillati nella loro essenza, ispirarono una delle più singolari composizioni di questo secolo, Out of Africa.

Come affermò l’eloquente biografa della Blixen, Judith Thurman. “Finch Hatton fu così prezioso che l’autrice lo menzionò con moderazione, nel libro”.

Ma fu senz’altro più presente del marito di Karen, Bror Blixen, senza scrupoli ed autoindulgente, che la spinse a quel viaggio verso la terra d’Africa. Fu proprio quell’uomo amichevole ma rude, con i suoi debiti, la sua passione per le donne ed infine, la sua sifilide, a concludere con lei un matrimonio d’interesse. Un personaggio troppo grossolano per la rarefatta atmosfera che lei aveva creato nel suo libro.
Perché gli scritti della Blixen posseggono le stesse tonalità della caccia nella Savana, in cui il senso della morte incombe sulla vita, che può spegnersi in ogni istante e per questo il suo racconto è al contempo intensamente specifico e misteriosamente reticente.

Rendere questa prosa in un film per il grande schermo, venne considerata un’impresa quasi impossibile. Il romanzo è una raccolta di favole, una collezione di note antropologiche, ma pure un diario naturalistico con riflessioni mistiche.

Confesso che io stessa vi avevo trovato qualcosa di ambiguo, come quelle fiction dove il tempo è riarrangiato e compresso, fuso attorno ad un episodio solo… scoprivi, poco per volta, che la scrittrice aveva dato per scontata la sua presa di distanza dai fatti che raccontava, come fosse un modo per emanciparsi dalle preoccupazioni del quotidiano di quei giorni.

Come era possibile rendere in un film una tale sottigliezza del racconto? Come farlo non tradendo le aspettative del pubblico? D’altronde, né durante il viaggio della scrittrice negli Stati Uniti, né nei vent’anni successivi alla sua morte, alcun regista, fino al 1985, si era accinto all’impresa.
La risposta di Kurt Lueddtke, chiamato a scrivere la sceneggiatura del film, fu dirompente: trattenne solo l’intensa verità emozionale del romanzo, che poi rappresenta la sua essenza.

Un proposito che realizzò in diversi modi: in primis, il punto di vista del film, che non è quello della scrittrice, ma quello della terra d’Africa, anche se in apparenza è lei che osserva i fatti.
Noterete che la camera è puntata saldamente sul paesaggio, da cui tutto dipende ed anche quei primi piani su cui indugia, rendono le sagome impalpabili nel sole accecante del continente africano, o nel lucore di una luna, senza eguali in altri luoghi del mondo…

Ma lo sceneggiatore si è anche preoccupato di ripristinare la coerenza del film e lo ha fatto attingendo ad altre fonti, come il testo della già citata Thurman, ma pure lo studio della vita di Finch Hatton e le lettere della Dinesen, più esplicite del suo libro; di sicuro Lueddtke non mancò di improvvisazione, per reinventare le scene più drammatiche. E, durante le riprese, inserì anche altri elementi, per rendere i dialoghi sintetici ed idonei alle sequenze.

Ecco perché Robert Redford, chiamato per il ruolo maschile principale, raccontò di aver trovato un amico in Finch Hatton, quasi uno spirito affine per scoprire la magia dell’Africa. Laconico, elusivo, ironico ed in qualche modo ruvido: quando la storia d’amore con la protagonista si sta per concretizzare, lui scompare per sempre tra le nuvole.
E Meryl Streep, come Dinesen, fu perfetta nel match con Redford: un’aristocratica, arrogante nei confronti di un mondo sconosciuto, di cui poi diverrà parte ella stessa e per sempre, grazie alla sua arte che la renderà assai più vulnerabile.

Un’attrice sempre magnifica, quando il ruolo le richiede di mollare gli ormeggi, dall’albagia alla generosità, dall’amore, alla considerazione della morte.
Infine, l’intelligente interpretazione di Klaus Maria Brandauer, nel ruolo del marito di Karen, aiutò a realizzare il progetto del regista Pollack. Un editing coraggioso, che ritrae non solo un immaginario pieno di ardore, ma anche un’altra cosa, che non sembrava possibile trovare in quel film: il ritmo del racconto della Dinesen.

Perché lei, sui particolari non indugia, li accompagna per un attimo, come un’eco delle tante canzoni che le cantò l’Africa e che lei sapeva essere mirabili, proprio perché preludevano alla morte. Il ricordo di quell’amore scomparso, ma anche la stessa malattia, contratta dal marito, con cui dovette convivere fino alla fine dei suoi giorni, le fu compagna, eredità di quella terra… come lo sparo del fucile nei safari, il cui suono secco di morte sembra riecheggiare di continuo nel romanzo: fu allora che aveva iniziato a vivere, ed a morire.
Ma lei riuscì a trasformare la perdita in un tesoro, i suoi personaggi in una leggenda, l’oppressione e l’ovvietà di quel mondo, nella nobiltà di alcuni spiriti senza tempo ed infine, tutta quella tristezza e la morte, nella melodia di un racconto.

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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