Trentadue secondi e sedici. Duecento metri tra una vita e la disumanità

trentaduesecondiesedici_2-1200x80132″16. Trentadue secondi e sedici. Il tempo che può durare una vita. Prima il nulla, dopo, il nulla. Questo è stato, agli occhi del mondo, il tempo della vita di Samia Yusuf Omar: atleta.

In questo tempo Samia ha corso i duecento metri alle Olimpiadi del 2008.
Un tempo che non è da atleta olimpica, ma che per lei significava molto di più.
È da quel mezzo minuto che prende le mosse la drammaturgia di Michele Santeramo, in scena al Teatro Ringhiera di Milano.

Non si può partire altro che da lì, perché è tutto ciò che sappiamo di lei con certezza. Il suo tempo, che ne ha fatto l’atleta più veloce della Somalia.
Un’atleta che si allenava di notte, da sola in uno stadio vuoto, perché una donna in Somalia non può
correre. Eppure ogni notte lei è in pista, e spera che Mogadiscio, la città dove è nata, e i militari che vi brulicano fingano di non vedere.
Ma qualcuno della Federazione ha notato questa ragazzina magrissima e scomposta, diventata campionessa nazionale. Così le offre un’occasione che non si può rifiutare: il primo aereo, il primo viaggio. Le Olimpiadi di Pechino 2008.
L’adrenalina passa veloce come era arrivata, e quei trentadue secondi sono un soffio. Samia non sa dov’è, non è pronta, ma corre e basta. E Pechino è dalla sua parte.
Ma tagliato il traguardo il riflettore si spegne, e Samia deve tornare in Somalia. Adesso l’obiettivo è Londra 2012. Partire e non tornare, stavolta.
Ma la burocrazia è molto più lenta di quei trentadue secondi, e Samia sta rischiando di non poter partire più. E così le rimane da fare un solo viaggio, attraverso l’Etiopia, poi la Libia, poi il mare.
Un viaggio senza ritorno. Mai più. Samia ha scelto «male».
Tutto questo, però, non è altro che un lungo prologo. Una scusa, in fondo. Una storia, come tante ne sentiamo raccontare ogni giorno al largo di Lampedusa.
Serena Sinigallia qui sceglie una regia scarna forse all’eccesso, sceglie una voce che si moltiplica e spezza in tre per raccontare questa parte della storia come teatro di narrazione, cullato dai canti locali, su un podio che Samia non vedrà mai, circondata da un oro che luccica finto tutto intorno.
Ci si aspetta un racconto lineare. Ma non è questo che si vuole raccontare veramente. Improvvisamente tutto cambia e i riflettori si spostano. Da Samia a due personaggi che abitano un isola bagnata da un mare che vomita cadaveri. Mangiano pesce cercato nel mucchio dei morti, convinti di essere i soli abitanti della Terra e col compito di doverla ripopolare. Sono fratello e sorella, ma potrebbero essere due replicati, vestiti uguali, identicamente vuoti.

L’accoppiamento incestuoso e la follia esaltata che li pervade sono solo la punta di un iceberg, reso con intensità dai bravi Chiara Stoppa e Tindaro Granata.
Quello con questi due pupazzi incravattati è un incontro spiazzante e persino disgustoso. Estremo, senza dubbio. A lungo, sulla scorta della differenza così netta con la prima parte, si fa fatica a capire  dove si è stati catapultati. Ma non perché sia, difficile. Piuttosto perché una parte di noi si rifiuta di riconoscere nei due personaggi il nostro specchio. La rappresentazione viva della nostra disumanizzazione già compiuta,

Hanno un volto, potrebbero non averlo. Sopravvivono chiusi nella loro marcia campana di vetro che li protegge perchè «finchè arrivano morti, non possono farci del male.» Sopravviviamo così. Tra cadaveri di migliaia, forse milioni di Samia.
Si accende un tenuo bagliore di speranza, quando una reduce – Valentina Piciello, che offre come i colleghi un’ottima prova – approda sull’isola. Per un attimo ci si augura che una storia di vita vissuta – come era stata quella di Samia – risvegli e cambi il corso delle cose. Ma ormai il baratro è già stato saltato.
Resta solo la rabbia e l’estremo tentativo di chi tenta di smuovere nell’altro un sentimento umano, un disgusto sincero, finalmente.
Ma neanche per lo schifo c’è più spazio, neanche per la repulsa quando si superano i limiti della nostra morale apparentemente condivisa che certi tabù non è disposta a superarli, come quello di nutrirsi dei cadaveri dei nostri simili.
Persino questo è diventato normale.
Uno spettacolo ricco, articolato, che pur nel  suo essere vistosamente spaccato in due riesce in un compito oggi raro e difficile: sorprendere.
Si tratta di una pièce che allontana con forza e intelligenza il rischio del teatro sociale di questi tempi: il didascalismo ormai imperante.
Trentadue secondi e sedici non spiega, non assolve, non offre buoni sentimenti a buon mercato. Non consente di guardarci con pietà. Né noi nè Samia, che anzi, nella brutalità della seconda parte, è come se stesse a sua volta guardandoci. Come se lo sguardo e le voci di quei morti che salgono dal mare, la voce di un Padre Nostro che “non è nei cieli” volesse da noi soltanto una cosa. Sentirci ammettere finalmente e senza scappatoie che ogni giorno, ogni volta che una Samia entra, anche per caso, nella nostra vita: «tra noi e lei, abbiamo scelto noi».

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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