Il canto dei camminatori. Me ne vado. Di Marcela Serli.

Una ricerca senza confini. Questo è Me ne vado, di e con Marcela Serli, in scena al Teatro Ringhiera Atir. Privo di ogni confine. Non c’è una linea che traccia il confine di ciò che è spettacolo teatrale. In uno spazio spoglio, in scena c’è sempre Marcela.

In un primo tempo è una stand up comedian, in dialogo col pubblico, parte attiva della scena. Lo coinvolge e lo fa sorridere, di un imbarazzo insistito che è solo apparente, di uno scambio che tuttavia non ha nulla di artefatto. Lo introduce nella genesi di un testo nato anni fa, indagando le proprie stesse radici. Fogli accumulati che possono essere essi stessi nave, metaforica e letterale, in un viaggio verso se stessi.

È da sé che parte il racconto. Dalla verità di una famiglia e di un uomo, Giulio Serli – o meglio, Scherlic – che la povertà ha spinto a chiudere la propria vita in una valigia e a prendere una decisione: me ne vado.
Dai suoi genitori a Nenè, che sarà sua moglie. Dall’Istria italiana a Tucumàn, Argentina.
La città dalla quale sarà Marcela a partire – «figlia di gente che parte, cosa potevo fare?» – col mito dell’Europa e una nuova ricerca di chi è come lei, perché «i camminatori sono tutti uguali».

Hanno una radice ma non un luogo dove interrarla.

Così scompaiono i confini dei luoghi, perché le facce dei poveri sono le stesse dappertutto e il teatro è uno spazio sufficiente a incarnarle.
In una carrellata di volti costruita con la pregnanza della dialettica di Bergonzoni ma senza lo stesso autocompiacimento, ogni storia si tiene insieme. Il tango triste dei desaparecidos argentini e delle madri di Plaza de Mayo, i canti dei neri d’America.
E poi il Sudamerica: Colombia e Brasile. E ancora l’Africa, poi la Cina e l’Asia e infine l’Europa, l’est dei Balcani e l’ovest della Germania. Ma a venire toccato è l’intero mondo.  E insieme al parallelo dello spazio il meridiano del tempo.

Attraverso l’inizio del secolo, gli esodi che hanno segnato la storia, la Shoah e le guerre mondiali, inclusa quella in corso e quelle che saranno, perché il potere resta sempre sé stesso.
Un’abbondanza che riesce a non dare senso di accumulo.

Si riesce a dire tutto e tutto sta al suo posto, in una sequela di suggestioni dal ritmo serrato ed evocativo dove ogni luogo ha la sua nota. Un ritmo che suona come un canto. In onore delle voci che sono accomunate dallo stesso desiderio: andarsene.
Un canto di molte rime e molte voci che in una si moltiplicano e che coinvolgono tutti. Giulio e Nenè e il pubblico, invitato a rompere il proprio ruolo di osservatore per trovare a sua volta il proprio posto, anche sul palco.
Marcela Serli crea uno spettacolo con una messa in scena originale dove tutto, spazio e racconto, è piegato alle necessità di trasmettere una suggestione. Anche l’attrice appare e scompare, tra realtà autobiografica e meta-teatro, toccando toni dalla totale levità dell’intrattenimento ai passaggi schiettamente teatrali che evidenziano ottime doti di interprete.
Una scelta enciclopedica interessante e avvincente, capace di evitare la superficialità e di mantenere coerenza e intensità. Un viaggio lieve ma non senza consistenza in una barca tra i flutti, come quella di chi cerca una vita nuova. Un continuo word in progress, il cui obiettivo è la ricerca di «qualcosa che mi dica che appartengo».

Sempre che sia possibile trovarlo.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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