Concerto per voce narrante. Il trentesimo anno secondo Sonia Bergamasco.

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Sonia Bergamasco

Entrare nella sala di un teatro ed essere sorpresi da un concerto. È questa la sensazione regalata dal Trentesimo anno di Sonia Bergamasco, di scena al Teatro Franco Parenti.
E non perché la messa in scena nasconda musicisti che il programma di sala non riporta. Ce n’è una, ed è sufficiente. Con un solo strumento: se stessa.

Il trentesimo anno. Ovvero quel momento della vita in cui si è ancora giovani, ma alla mente pare affacciarsi una voce che chiede risposte. Il punto in cui alle infinite possibilità della giovinezza iniziano. Lentamente ma inesorabilmente, a sostituirsi le scelte.

Un salto nel vuoto improvviso e spiazzante che genera confusione, sbandamenti, fretta e accidia, in un viaggio che accelera, scarta, si ferma e si slancia.
Un flusso di coscienza articolato e denso che scivola sulle parole di un’attrice che si fa totalmente voce.
Interamente. È voce il lungo vestito bianco che la avvolge, che ne segue le modulazioni. È voce il suo corpo e i suoi gesti, flessuosi ed eleganti, che nel paradosso del racconto paiono diventare estensione delle parole. L’attrice, apparentemente, legge. Eppure il leggio le offre slancio, invece di frapporre un muro. L’immobilità amplifica i disegni tracciati dalle braccia e dalle dita.

Sarebbe facile ritrovare in questa messa in scena l’eco di Carmelo Bene, che della Bergamasco è stato maestro. Ma in questa messa in scena c’è, pienamente, Sonia Bergamasco. E il suo personalissimo suono.
Un suono che tratteggia uno dei racconti più noti di Ingeborg Bachmann, che si pone una delle domande più complesse dell’esistenza. «Ma io chi sono, se da me tolgo tutto ciò che gli altri hanno fatto di me?» Un testo non certo semplice, che chiede e offre allo spettatore la possibilità di essere recepito in due modi.

Il primo è più impegnativo: fare appello a tutta la propria attenzione e concentrazione, senza cali, seguendo il filo svolto con precisione dalle innumerevoli modulazioni del suono. Così come di un concerto ci si può impegnare a riconoscere ogni nota delle sue migliori sinfonie.
Ma c’è una seconda via. Cedere al totale abbandono, chiudere gli occhi e lasciare che sia il suono a condurre la mente e il cuore dove desiderano andare.
Lasciare che le parole sorprendano l’orecchio e generino un flusso personale nei pensieri di ciascuno.
In questo caso ciò che viene raccolto non potrà mai essere l’interezza, ma sarà come passare il susseguirsi delle frasi – e i molti colori che la parola attribuisce loro – attraverso un setaccio, per lasciarvi le proprie personali pepite. I passaggi della sinfonia che nel nostro sentire non vanno persi. Ci si creerà così una geografia propria del peregrinare spaventato del protagonista, ma del resto «cosa c’è di più grande di ciò che hai dentro, cosa c’è di più grande del tuo mondo interiore?».
Tutto appare contribuire a questo farsi suono, tra levando e calando continui, pause e cambi di andamento.

Così anche le luci, cui è demandato il compito di riempire lo spazio scenico che pare allargarsi attorno al corpo dell’interprete. La sua figura occupa il palco fin da prima che le luci si spengano, svettante senza per questo sembrare distante.
Ma questa apparente statuarietà suggerisce un movimento di fluidità attraverso la parola scritta che si specchia anche nei fogli del testo, che le mani della Bergamasco trasformano – col loro muoversi e la consistenza quasi evanescente – nell’unico effettivo strumento scenico di cui lo spettacolo si avvale.
Sonia Bergamasco offre un saggio di perfetta recitazione sfrondata da tutto ciò che non è strettamente necessario, senza per questo scivolare nello sfoggio di tecnica che avrebbe potuto essere arido.
Al contrario, si produce in una straordinaria prova d’attrice in cui ogni parola è dotata di pathos da sè sola, che si sia colta o meno l’interezza dello svolgersi della vicenda.
Se «non c’è un nuovo mondo senza una nuova lingua», probabilmente a Sonia Bergamasco si potrà attribuire il merito di aver contribuito in maniera decisiva a gettare le fondamenta di dell’uno e dell’altra.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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