Tutto quello che resta. La vita, l’amore, la morte nelle pagine di Emigrant di Jovica Momčilović

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Mi capitava, molto tempo fa – o forse non molto, un anno appena, se ci penso: ma mi succede, nei miei vent’anni, di vivere mesi come fossero giorni e anni invece come secoli interi. Mi capitava – dicevo – di perdere una mattinata intera fra scaffali di libri usati in un buco di book shop, a Cambridge e di ritrovarmi fra le mani una raccolta follemente eterogenea di poesie bosniache (acquistata, ovviamente, senza nemmeno pensarci molto).

Nel prologo parlava il curatore di tutta quanta l’antologia (non ricordo ora se scrittore a sua volta o professore o antropologo o esponente di una qualche categoria ibrida e autodeterminatasi) e raccontava il suo ambizioso progetto di dare voce a chi la voce l’aveva perduta – nella guerra, forse, insieme alla casa, la patria, l’identità – o piuttosto in un tempo più antico, come a espiazione (malriuscita, peraltro) di un qualche peccato originale.

Ma la sua raccolta si concentrava su un passato molto recente, accettando solo componimenti degli anni ‘90, che si tenessero dentro la storia di una guerra – quella propagatasi dalle voragini di un’URSS che crolla, quella che devasta e disintegra la propaggine d’Europa riunita sotto la fragile bandiera di Jugoslavia. La storia di una guerra immensa, verissima perché animale, la guerra del tutti contro tutti, la guerra senza distinzioni, senza vincitori. La guerra che annienta e che falcia e non costruisce (quasi) nulla.

In una guerra così – proseguiva – cambia persino il modo di scrivere: perché cambiano le necessità, si modifica radicalmente l’ordine dei valori. La guerra obbliga a fare un passo indietro nella propria umanità, a ritornare a quel lavoro come lo intendeva Hannah Arendt: procurarsi il cibo, procurarsi un rifugio. Sopravvivere, insomma: come fanno gli animali.

E se le priorità sono queste, allora vengono meno – fisiologicamente – tutti quei tormenti partoriti dall’otium dell’Uomo-in-pace. Banalmente: cola a picco il numero dei suicidi per amore.

Ecco, questo più di tutto mi aveva colpito: forse quel logorio che mi porto dentro, che tanto mi sembra parlarmi dalle pagine dei miei autori preferiti, che nella loro ombra mi stringe e mi accoglie (come unico, enorme, antichissimo fascio – splendida e plausibile etimologia del verbo affascinare). Questo scavare incessante e tanto spesso sterile nelle piaghe della propria interiorità potrebbe essere, quindi, nient’altro che il frutto di una vita annoiata, di una vita che alla fine non rischia nulla, e stancamente ripiega su se stessa il proprio tormento e si consuma da sola.

Questa la domanda a cui né il prologo, né tutta quanta l’antologia erano riusciti a rispondere.

Questa la domanda che – un anno dopo, a Milano- decido di porre a Jovica Momčilović, quando trova qualche minuto per parlarmi, prima della presentazione del suo ultimo libro, Emigrant.

Quello che so di lui l’ho letto su internet: nato a Sarajevo, costretto a fuggire nel 1992. Porta nella valigia nient’altro che un asciugamano: qualcosa bisogna averlo, ma qualcosa che non faccia pensare a una fuga. A una vacanza, piuttosto, una gita di piacere. Se scappando un rifugio lo trova in Italia, una casa non la può trovare più (non è cosa che si incontri, fuggendo da): oggi vive a Bergamo, lui con moglie italiana, lui con figlia italiana, lui ancora un extra per la comunità in cui vive. Voglio farla a lui, la mia domanda, perché ho letto che si è presa anche la sua di vita, quella guerra animale. Voglio farla a lui perché ho letto che i suoi libri parlano d’amore.

Mi guarda negli occhi e io devo davvero impormi per non abbassarli – ho sempre fatto fatica a sostenere uno sguardo, ma il suo è vorace, intenso, poco accomodante.

Risponde: la guerra è una cosa vera, totale, onesta. Perché la gente si ammazza lo stesso, ma in guerra lo può fare sempre, anche per strada – io annuisco, registro, ma non capisco – io scrivo d’amore perché quella è l’unica cosa che si cerca, sempre. È una cosa ancora più vera, la più vera di tutte. E di nuovo mi sembra di capire molto meno di quanto non mi stia dicendo davvero.

Ma la colpa è mia, che mi davo capace di intendere da una sola domanda e una sola risposta.

Mi è più chiaro ora, che l’ho letto il suo libro: Emigrant, pubblicato per i tipi di Lubrina Editore in un formato lunghissimo e stretto. Un libro verticale, scritto per forza di necessità, con la matita mangiata dalle parole, con la grafite che si consuma e muore mentre prende vita la storia.

Ho letto Emigrant e mi sembra di aver fatto con Jovica una lunga chiacchierata. O meglio: averlo lungamente ascoltato raccontare storie, con la voce spezzata e ruvida che immagino ai nomadi, a quel pastore errante di leopardiana memoria che canta e che chiama la Luna.

Ho letto Emigrant e ci ho trovato una storia, vera, verissima, dello scrittore che scappa e che sa che d’ora in avanti non potrà fare altro:

anche andare per non morire, significa morire; non lo sapevo.

Ho letto Emigrant e ci ho trovato – in realtà – tutto quanto un mondo di storie e di persone che scappano e che si incontrano, che si cercano, che si sfiorano. Un intreccio di vite che si muove al ritmo sincopato di una staffetta, passandosi con mani tremanti il doloroso testimone della morte. Un intreccio che si sfilaccia e – a tratti- s’arresta: quando il testimone non si può dare più a nessuno e bisogna portarlo, con discrezione quasi sacrale, fino al confine, alla soglia, al buco nero di una porta che ha come chiave i petali caldi del fiore di zucca.

Un libro, Emigrant, quanto mai simile a un dono, che ancora porta sulla copertina le impronte di chi lo ha regalato, le impronte come schedatura, o meglio: le impronte come primordiale segno di riconoscimento, come primissimo essere-me, essere-qui.

E in dono, nel silenzio della lettura, trovo anche la mia risposta.

La guerra è una cosa vera, totale, onesta: sempre in guerra, sempre in trincea le vite di cui racconta Jovica Momčilović, anche quando passano i confini, quando stanno dalla parte amica. Il conflitto li incalza da molto più in basso, la terra smotta, frana, cola e anche da fermi devono sempre scappare. E proprio per questo, proprio perché anche solo vivere è così difficile, loro amano.

Terribilmente, atrocemente, amano:

Tutte le persone vogliono essere felici, quello che fanno per diventarlo, li rende unici. La vita degna è quella che lascia dietro di noi un bel ricordo, il cuore puro, anche se protetto con le pistole; è la vita che trasmette la bellezza a qualcuno, e se non è possibile a qualcuno, almeno a uno, io cerco quell’uno.

Amano di un amore feroce, che non può concedersi – è vero – il lusso del tormento, del dubbio, del forse-se-io, del forse-se-lui. Un amore spietato, che non può scegliere i suoi tempi, che deve sapersi consumare in un giorno, che deve saper aspettare per anni. Un amore che non può scegliere di non essere coraggioso. Ma un amore così limpido e forte da essere sufficiente per dare senso al mondo, un amore totale, vero – o meglio: la più vera di tutte le cose.

Anche se me lo chiedi, non posso farlo.
Non risparmio né me, né te, perché
Amore mi dà il diritto di fare così, perché
Amare è cavalcare la bestia.

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Nata a Parma nel 1995 e qui incamminata sulla via degli studi umanistici, dal 2014 risiede al Collegio Ghislieri di Pavia. Nell'Ateneo della città studia Lettere Moderne e muove i primi, incerti, decisi passi verso la Storia dell'Arte Contemporanea. Sprovvista della esperienze e della sicurezza che occorrerebbero per parlare di se stessa in terza persona, si limita a seguire ogni strada buona con tutti gli strumenti possibili - che siano un libro, una valigia, un biglietto del cinema. Non sa quello che è, non sa quello che vorrebbe diventare: in mezzo, la voglia di non risparmiarsi e una passione sempiterna per la scrittura e per la cultura dell'Europa centro orientale.

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