A lezione dai classici: Gli innamorati

Prerogativa di un classico è quella di resistere a tutto. Al tempo, ma anche ad ogni possibile manipolazione. E mantenere ugualmente le caratteristiche che lo fanno amare, senza bisogno di venire rivestito di rielaborazioni complesse. Probabilmente questo ha spinto Andrèe Ruth Shammah a firmare per il Teatro Franco Parenti un Goldoni piuttosto fedele all’originale.

La scelta cade su “Gli innamorati”: un testo molto amato del commediografo veneziano, tanto da essere giunto anche nel teatro milanese alla quarta ripresa in tre anni.

«Avete riso di questi personaggi, fate che da adesso in poi non si abbia a ridere di voi». La frase che chiude la gran parte delle commedie goldoniane qui sigilla la risoluzione del tormentato amore tra due giovani e fumantini amanti: l’orfana e impoverita Eugenia e il ricco Fulgenzio. Preda l’una di uno zio scialacquatore e fanfarone, Fabrizio, e il secondo di un rigoroso senso del dovere nei confronti della cognata Clorinda.

Tuttavia niente ostacolerebbe il loro amore, poiché anche le disparità economiche non costituiscono un problema. A porre un’innumerevole serie di difficoltà al coronamento del loro sentimento, sono sufficienti però i due ragazzi. Le reciproche gelosie e insistite provocazioni generano violente liti, prive di motivazioni eppure sempre più esasperate, che si trasformano in veri e propri duelli cui livide luci di Gigi Saccomandi conferiscono a tratti atmosfere inquietanti.

Si moltiplicano così le incertezze, i capricci, le vendette seguite immediatamente da sensi di colpa, pentimenti e nuova rabbia, gestiti con fatica dai parenti e dagli amici, incarnati da un gruppo di validi interpreti. La sorella di lei, Flaminia (Silvia Giulia Mendola) il saggio amico di Fulgenzio, Ridolfo (Roberto Mencioppi) la serva Lisetta (Elena Lietti) e soprattutto l’esilarante e flemmatico servo Succianespole i cui panni sono vestiti dal bravo – e amatissimo dal pubblico – Andrea Soffiantini.

A emergere è però l’ottima Eugenia di Marina Rocco, capace di dare vita a una protagonista come il testo la chiede ma di renderla credibile, senza cadere nell’esasperazione del personaggio, dietro l’angolo quando si affrontano testi risalenti all’epoca goldoniana. Accanto a lei, focoso coprotaginista, Matteo De Blasio.

Sarebbe tuttavia riduttivo considerare questa pièce la commedia della gelosia: altrettanto significativo il filone che vede protagonista lo zio Fabrizio, ben interpretato da Marco Balbi. Intenzionalmente macchiettistico nel suo relazionarsi coi ricchi ospiti, e soprattutto con il lucidissimo forestiero Conte d’Otricoli, Roberto Laureri, lo zio non si limita a garantire la risata del pubblico. Potrebbe essere superficiale infatti etichettare come battuta da goffo truffatore la sua convinzione: «la realtà è solo quella che si inventa», senza chiedersi quanto covi, parimenti alla gelosia, in ciascuno degli spettatori.

A sostenere una buona messa in scena, la sapiente regia di Andrèe Ruth Shammah, che si pregia di dosate e attente intuizioni.

La più vistosa è la scelta di eliminare le quinte, riducendo il fuoriscena a una piccola porzione di fondo palco, sfruttando a pieno gli a parte e la convenzione tra pubblico attori su ciò che rientra o meno nel visibile e visto.

La più riuscita è però rendere la scenografia con il semplice e tuttavia suggestivo uso di alcuni appendiabiti montati su ruote, che si trasformano di volta in volta in porta, muro, finestra.

Essi evidenziano i meccanismi scenici, trasformando in battuta alcune didascalie. Contemporaneamente alleggeriscono la scenografia, nel loro carico di abiti bianchi. Aderenti a quelli d’epoca sono invece i costumi dei personaggi in scena, – curati da Gian Maurizio Fercioni – a loro volta bianchi, che omaggiano  un altro classico: il “Giardino dei ciliegi” per la regia di Strehler.

È una lezione sui classici, quella che va in scena al Parenti. Una lezione vincente, perché ne conferma la vitalità e l’ottimo stato di salute.

Una lezione su come è possibile metterli in scena e farli parlare alla contemporaneità senza bisogno di goffe e superflue attualizzazioni o forzature oggi fin troppo in voga.

Strategie che si autoevidenziano come inutili, perchè per quanto si tenti di imporre letture differenti, fosse anche soltanto più drammatiche, è l’intenzione di Goldoni a emergere inevitabilmente, nel suo far riflettere ma anche, e soprattutto, ancor oggi, saper far ridere.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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