Hiroshima notre amour

hiroshima-mon-amour
Hiroshima mon amour

Credo che il miglior augurio che si possa ricevere sia quello di vivere in Pace i giorni della nostra vita.
Tutti dobbiamo sperimentare, prima o poi, l’irreparabile, è inevitabile che avvenga, ma la vicenda individuale, come pure la storia dell’umanità, appare tanto trasparente e globale da non lasciare dubbi sulla possibilità di costruire un mondo migliore. Aver cura della Pace non significa solo averla cara, significa promuoverla come il bene più grande.
E di questi tempi, la consapevolezza può rifiorire anche dalle sequenze di un vecchio film, perché è proprio attraverso queste memorie che la mente riflette e la coscienza umana si mantiene vigile.
Per questo ho scelto di raccontarvi una storia che ho sentito narrare, a mia volta, da coloro che ne furono partecipi, una storia d’amore innanzitutto, che trionfa sulla stoltezza umana.
Tutto ebbe inizio sul finire degli anni 50, quando una produzione francese decise di realizzare un lungometraggio su Hiroshima.

Erano tempi in cui gli effetti dell’atomica si erano rivelati in tutta la loro drammaticità e si voleva un regista che dirigesse il film, senza cadere nella retorica.
Proprio in quei giorni di intenso fervore culturale, nella Parigi delle avanguardie, un documentarista trentacinquenne, esponente della Rive Gauche, aveva mostrato il suo valore con un mediometraggio sull’Olocausto, dal titolo Notte e nebbia.  Il suo nome era Alain Resnais ed ebbe l’incarico di dirigere il film in progetto.
L’intento della produzione – Globe Films International – voleva orientarsi verso la denuncia dei crimini di guerra e dell’olocausto nucleare di Hiroshima.
Ma non andò così.

Fu designata al ruolo di sceneggiatrice, una letterata la cui fierezza aveva fatto storia: Marguerite Duras. Tentare di spiegare chi sia stata e che ruolo abbia svolto nella cultura di quel tempo, è un’impresa che meriterebbe un capitolo a sé: sprezzante, sacrilega, contestatrice, trasse spunto da vicende dolorose, per decantare una forma di amore carnale e salvifico, a cui tutto soggiace, perpetuato e reso immortale dal conforto della memoria. Se da un lato mi innervosiva l’inclinazione alla polemica, con cui difendeva il suo diritto ad essere innovatrice, dall’altro mi sconcertava la sua prosa incisiva, che lei stessa definiva paratattica, a favore della quale abbandonò le convenzioni romantiche giovanili. Con quella essenzialità sintattica, ispirata dai grandi scrittori d’oltre oceano, aveva scritto, nel 1950, Una diga sul Pacifico (romanzo amatissimo da Elio Vittorini e da Italo Calvino) e L’amante (1984), con cui vinse il premio Goncourt; in tutto diede alle stampe 34 libri; ma dopo la sua sceneggiatura su Hiroshima, divenne chiaro che il suo stile ben si attagliava all’esperienza cinematografica, ispirandola a dirigere in seguito ben sedici film.
A questo proposito fu sferzante: «Faccio film per occupare il tempo. Se avessi il coraggio di non fare niente, non farei niente. È perché non ho il coraggio di non occuparmi di niente che faccio film».
Indocinese di nascita, francese d’adozione, animò una stagione di contestazione che arrivò fino ai moti del ’68 e, a distanza di più di 50 anni, con quello script dal titolo Hiroshima mon amour, si rivela ancora oggi attualissima e seducente.

La sua sceneggiatura fu candidata all’Oscar nel 1961, ed il film, che passò in rassegna a Cannes, promosse Resnais vate della Nouvelle Vague (un movimento cinematografico che illustrava il disagio di una generazione, alla ricerca di nuovi canoni espressivi).
Il regista Claude Chabrol ebbe a dire che Hiroshima era stato il più bel film che avesse mai visto.
Anche oggi, attraverso lo sconfinamento tra sogno e realtà di quel bianco e nero fulgido, mi appare un capolavoro senza età.
Narra la storia di un’attrice, giunta a Hiroshima per girare un film pacifista, che incontra un architetto giapponese, con cui ha un’avventura. Il film si apre su membra umane avvinte, madide di sudore e sabbia radioattiva, ”simili a meduse o serpenti”, spiegò la Duras e allora fece scalpore.
Inaspettatamente, però, quella notte di amore si protrae e nasce il film, sulla traccia del pensiero della protagonista, delle sue immagini mentali, dei ricordi che si stagliano sullo scenario di una città testimone di un dolore troppo grande per essere analizzato.
E si è grati di questo, perché i flash back e l’incertezza, la vicenda personale e gli amori infelici, fanno da contraltare alla dignità della gente della cittadina nipponica.
Qui ad Hiroshima non c’è bisogno di pubblicità sulla Pace”, le sussurra il giapponese, in risposta alla frase della protagonista, che si chiede “cosa potrebbe accadere se si facesse pubblicità alla Pace come ad un detersivo”.
Il palpito intimista, che soggiace all’esperienza avventurosa della vita di Madame Duras, nella resistenza prima, e sulle barricate del ’68 poi, ci comunica il suo messaggio, che rintraccia nell’Amore la realtà ultima cui ritornare, eredità di tutti i popoli (“Io e Resnais volevamo fare un film sull’amore”, dichiarerà poi).
Emmanuelle Riva, attrice di teatro, interpreta Elle, la protagonista, donna con una vita apparentemente normale, che però beve per dimenticare e porta il marchio della condanna per aver amato un soldato nemico.

E mi chiedo se il mondo di oggi sia davvero così diverso da quello descritto da Marguerite Duras… Credo che salire sull’ottovolante, negli ultimi cinquant’anni, non sia servito per dimenticare, è necessario recuperare la memoria di un passato di cui non andare fieri, e scoprire, anche attraverso un vecchio film, che la pace evocata è ancora solo un ideale e che quell’ideale deve essere protetto, sostenuto, amplificato, desiderato, accarezzato, come l’amante nella memoria della protagonista.

So tutto di Hiroshima
Non sai niente di Hiroshima
recita il dialogo tra la protagonista e l’amante giapponese, sulle note della colonna sonora di Giovanni Fusco, compositore beneventiano, che per il film utilizzò strumenti solisti e ritmo poetico, facendo divenire la musica parte integrante dell’azione.
Duras produsse la materia prima, ma lo script del film riuscì a ribellarsi all’immagine, a non essere didascalico (la prova nei dialoghi immaginifici, compulsivi o trasognati, sempre distanti dalla scena).
Alain Resnais, non sembrò di primo acchito avanzare una pretesa particolare, se non quella di incatenare i personaggi al loro momento, intessere una tela: Hiroshima mon amour rappresenta il contrappasso di una coscienza che non accetta di aver vinto a costo di 200 mila morti, che nel film divengono emblema di tutte le vittime della crudeltà umana.
L’impronta della Duras è presente sopratutto in questo salto prospettico, per il quale fu elogiata, ma anche criticata; mentre Resnais è il demiurgo e l’esegeta di quei versi, e lo fa scegliendo una doppia traccia, un percorso a sé stante, nello stesso film. Ecco le immagini della strage, gli ospedali, la distruzione.
Campo e controcampo.
E poi di nuovo il gioco di specchi: qui il presente, lì il passato: un giovane amante della protagonista allora diciottenne, il soldato tedesco, ucciso a Nevers, in Francia.
Il ricordare fa parte della vicenda filmica, in una contestualità che è propria solo della memoria umana, ma a cui Resnais poté avvicinarsi con l’adozione di un flashback disancorato dai canoni tradizionali, oltrepassando la dissolvenza.

In un mondo che ha dimenticato che tous se tient e che l’operato dell’uomo è ciclico, come le sue infamie (“Tutto si ripete…” osserva la protagonista), quando anche la memoria del tempo perde la capacità di rievocare l’emozione, diviene carne morta, decomposta e lascia spazio a nuovi orrori e tragedie nel futuro dell’umanità.

Marguerite Duras: una vita avventurosa che somiglia ad un romanzo, dall’Indocina a Parigi, una memoria trascesa nell’espediente letterario, una sublime sceneggiatura con una sequenza di proposizioni principali, per ridefinire il luogo, la cagione, il sentimento e, poiché in lei il passato è immanente, lo diviene anche per noi.

E dopo la morte che resta?
“Niente, i vivi che ricordano”
“E di voi, Madame Duras, chi si ricorderà?”
“I lettori giovani, i piccoli allievi”.

+ ARTICOLI

Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.