L’ultimo Don Chisciotte – il sognatore, onirico e corporeo


Se pensiamo a Don Chisciotte, l’immagine che ci sovviene è la stessa pressoché per tutti. L’uomo che assale i mulini a vento, straccione, invasato e grottesco. Ridicolo, in sostanza. L’immagine che L’ultimo Don Chisciotte – il sognatore ha intenzione di evitare.

La pièce andata in scena allo Spazio Tertulliano di Milano ad opera della compagnia Punto Teatro Studio vuole infatti costruire qualcosa di diverso.
Beninteso, l’adesione al testo originale di Cervantes non viene meno, soprattutto sul piano delle parole utilizzate. Naturalmente sarebbe impensabile una riproposizione filologica, e così vengono scelti alcuni degli episodi più significativi, tra i quali spicca soprattutto l’attacco alle pecore.
Non manca – inevitabilmente – il fedele scudiero Sancho Panza, così come non può che esserci la bella Dulcinea.
A muovere il cavaliere è il desiderio di costruirsi una realtà diversa, a sua misura, dove «Ciò che non esiste è, e ciò che esiste non è». Una realtà che può disegnare a proprio piacimento, sfuggendo da una concretezza misera fatta di lettere mai spedite a un amore che non c’è, per sentirsi invece dentro a un’epopea, l’ultimo crepuscolo dei cavalieri.

La costruzione della realtà da parte del suo protagonista è resa scenicamente evidente da una scenografia ridotta all’osso, composta di una cassa e di due teli bianchi.
La compagnia sceglie infatti di partire da un testo già di per sé simbolico e di amplificare ulteriormente il valore di simbolo delle proprie scelte, trasformando la lunga avventura del condottiero della Mancha in una sorta di sogno a occhi aperti.
A dargli vita Andrea Lietti nei panni del protagonista, che veste un scenografico eppure semplice costume armatura firmato – come le scene – da Francesca Biffi e Paola Tognella, sopra la pelle nuda e una base nera. Il racconto si spoglia anche fisicamente dei dettagli per farsi ulteriormente simbolico.

Il fido Sancho – cui a trasformarsi da contadino a scudiero basta una giacca – è Francesco Errico mentre i panni di Dulcinea, minimali anch’essi, sono vestiti da Daniela Quarta, direttrice della celebre scuola Quelli di Grock, che fa della rielaborazione la propria cifra stilistica.
Se infatti i tre attori non mancano di dimostrare le proprie abilità interpretative con una recitazione che si muove con attento bilanciamento fra enfasi e controllo, la regia di Isabella Perego conduce la messa in scena su binari decisamente originali.
C’è infatti spazio per un affastellarsi quasi eccessivo di forme che coesistono e si compenetrano, dalla danza alle ombre cinesi, in un procedere senza soluzione di continuità tra recitazione e movimenti a tratti solo apparentemente scomposti che creano vere e proprie coreografie.
Ciò che ne deriva è un’insieme che sembra assumere una sorta di corporeità vistosa, indubbiamente gradevole da vedere e curioso costruito con cura e sapienza scenica.
Non sempre tuttavia è chiaro dove questa manifestazione di capacità e inventiva sia destinata ad approdare.
Questo elemento non fa che riaprire un’annosa questione, connaturata allo sviluppo del teatro, di cui già Carmelo Bene si faceva portavoce. Compito dell’attore è offrire una suggestione della cui interpretazione deve essere a carico dello spettatore, o passare un messaggio che l’ossservatore è libero di accettare o di respingere? In sintesi: è necessario fornire gli strumenti per comprendere ciò che la compagnia ha scelto di rappresentare, o a esserne la forza è proprio il dubbio che lascia?

Probabilmente la risposta risiede esclusivamente nel gusto di chi si trova sotto al palcoscenico. Non resta che approcciarvisi personalmente per formarsi la propria opnione.
Ciò che senz’altro resta è la forza di un personaggio senza tempo, liberato dalla sua aura banalmente comica attribuitagli con troppa facilità, per restituirgli la forza di uomo che sceglie non di sopravvivere, ma di vivere «Non per rovesciare il mondo, o per rifarlo, ma per amarlo».

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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