Non è più il tempo di nani e ballerine. Il Circo Barnum e lo Shakespeare della pubblicità

Locandina

Chiuderà a maggio 2017 il Circo Barnum. Troppo alti i costi, troppo pochi i ricavi, ma anche poca capacità di rinnovare il proprio storytelling. Probabilmente, infatti, la notizia di questa serrata farà piacere agli attivisti per i diritti degli animali e lascerà la maggior parte degli altri, indifferenti.

Fondato negli Stati Uniti d’America nel 1871 dall’impresario Phineas Taylor Barnum, il circo esisteva da 146 anni. Per gli appassionati di storia dello spettacolo si chiude un’epoca.

Barnum è stato un genio dell’imprenditoria applicata al mondo della creatività.

William Roscoe Thayer (1859–1923, autore ed editore statunitense), sosteneva che un americano della fine dell’800 avrebbe visto in Barnum il personaggio più importante dell’epoca, più dello stesso Lincoln.

Emblema del self made man, Barnum iniziò la sua carriera di impresario facendo esibire nel Caffè Niblo di New York un’anziana schiava afroamericana che spacciava come la tata del presidente George Washington, pur sapendo benissimo di mentire. Fino a questo punto, tutto nella norma, diciamo così. Era l’America della grande avventura e dell’economia imprenditoriale affidata alla pura inventiva, sregolata il più possibile, sfacciata e senza scrupoli. Ma andando oltre, Barnum esprime la sua genialità con la capacità di manipolare stampa e curiosità del pubblico per montare casi culturali. Un’azione frutto di un’idea folgorante, perché fino a quel momento gli unici che avevano pensato di poter sfruttare i mezzi di comunicazione a loro vantaggio erano stati i governanti. Nel caso della tata, Barnum arriva a pagare sottobanco un avvocato (che poi, nel tempo, divenne prima suo socio occulto e poi grande accusatore) per farsi denunciare… per mistificazione. Tutto, pur di avere una rassegna stampa e il sold out al botteghino. Addirittura, quando la donna morì, ne sollecitò l’autopsia, chiedendo a gran voce che finalmente si sapesse… tutta la verità. In questo modo, aizzò sottobanco una polemica tra “The Sun” e il “New York Herald”. I due quotidiani si schierarono rispettivamente il primo a favore di Barnum e il secondo contro, ma entrambi (consapevolmente o no, non è dato saperlo) diffondevano le sue veline e le voci di corridoio messe in giro ad arte proprio da lui. Ma non finisce qui. Dopo venti anni, per lanciare la sua autobiografia, Barnum confessò di essere stato un ingenuo e di aver creduto alla storia della tata, sostenendo (testuali parole) che «occupandosi comunque di lui e discutendo riguardo le sue intraprese, i giornali facevano assolutamente gratis il suo giuoco».

Già nel 1855, il libro aveva fatto guadagnare a Barnum, che oltre a scriverlo ne era l’editore, ben 70mila dollari solo di diritti. Il testo è in vendita ancora oggi (leggi: The Life of P. T. Barnum: Written by Himself  http://amzn.to/2iKlu4z) e viene utilizzato come una sorta di manuale per arricchirsi con la cultura. A firma Barnum, in Italia troviamo anche L’arte di far soldi, tradotto da Maria De Pascale (leggi: http://amzn.to/2jvtU0t). Un libro, da cui prendono spunto in molti per offrire consigli su come guadagnare, che andrebbe letto e riletto in un ambito di mercato cannibalesco, al meglio fondato sul caporalato anche d’alto bordo, com’è quello odierno.

Barnum è stato l’antesignano del guerrilla marketing, ma dalla sua esperienza sono sorte le radici stesse dello show business, della cultura applicata al capitalismo. Prima del circo, Barnum fondò a Broadway l’American Museum che altro non era che un baraccone arredato con figure di cera, automi (gli antenati meccanici dei robot) e diorami. Questo cosiddetto museo” ospitava giocolieri, illusionisti e curiosità. Tra queste ultime c’erano, ad esempio, un violoncellista e una (falsa) sirena imbalsamata. La prima star creata da Barnum fu il bambino nano Charles Sherwood Stratton (che grazie a questo ingaggio, fu strappato alla strada, dove chiedeva l’elemosina), ribattezzato “Generale Tom Thumb” e portato in tournée in Europa, dove si esibiva in una parodia di Napoleone. Da grande, Stratton divenne socio di Barnum, organizzando un Museo Cinese e creando il mito (che sarebbe stato di gran moda oggi) dell’erba in grado di schiarire la pelle scura.

In un certo senso, Barnum è da considerarsi il padre dei social, con il veleno e le bugie che inventano casi e mostrificano gente comune, dando a tutti il quarto d’ora di celebrità vaticinato da Warhol. Ma Barnum è anche il progenitore dei freak show, dei salotti televisivi della domenica pomeriggio: mostri e ancora mostri, personaggi strampalati contro cui montare l’odio o la compassione del pubblico attraverso schermaglie create ad arte dalle sapienti mani di redattori dietro le quinte e conduttori che ci mettono la faccia.

Definito ai tempi “lo Shakespeare della pubblicità”, Barnum cercò anche di portare in America la vera casa dell’autore di Amleto, ma non ci riuscì.

Scritturò a carissimo prezzo, invece, Jerry Lind, cantante europea di talento di riconosciute virtù canore e morali. In un comunicato stampa del 22 febbraio 1850, Barum dichiarò «da questa impresa non guadagnerò forse nulla, ma non mi importa. Voglio dare all’America questa esperienza». Ovviamente, guadagnò tantissimo.

Si deve a Barnum anche la diffusione planetaria del mito del Far West così come lo conosciamo dai film con John Wayne e la riscrittura dello sterminio di bufali e nativi americani in chiave eroica, con la criminalizzazione delle vittime e l’esaltazione dei carnefici. In Italia, Emilio Salgari ha scritto un intero ciclo di romanzi basandosi su articoli di stampa che derivavano dalle veline di Barnum (leggi ad esempio: http://amzn.to/2iDG9E2).

Una Nazione neonata, gli Stati Uniti, i cui abitanti erano immigrati da ogni parte del mondo, perseguitati di ogni ceto sociale ma spesso povera gente, briganti e puttane, puritani e benpensanti, tutti condividevano una irrefrenabile sete di informazioni e cultura che Barnum ha saputo intercettare e incrementare. Un’utenza certamente non fatta di soli ricchi, che metteva in conto l’idea di pagare per fruire, trovava normale dare a Cesare quel che è di Cesare, pagare i diritti d’autore persino al “re dei mistificatori”, com’era definito Barnum. Un’economia della cultura che era sana, nonostante tutto.

A più riprese si imputò a Barnum di essere pieno di debiti. Ma questo è il gioco del capitalismo d’impresa: si rischia. Chi non risica non rosica. 

Ma il colpo magistrale di Barnum fu il caso dell’elefante Dumbo. Lo zoo di Londra lo voleva sopprimere perché troppo vecchio e Barnum lo comprò e lo portò in America, montando una battente campagna stampa grazie a cui l’animale divenne un eroe liberato dal giogo degli inglesi, il simbolo di tutti gli esuli che avevano trovato una nuova vita negli USA e che ancora la potevano trovare. Fu portato in trionfo, Dumbo, in parata, coperto da coriandoli e fiori. Il nome divenne quello degli elefanti da circo per antonomasia e lo stesso Disney lo utilizzò per il suo elefantino volante. Se fosse vissuto oggi, Barnum, forse la giraffa dello zoo tedesco, fatta a pezzi con una sega elettrica pubblicamente davanti ai bambini, si sarebbe salvata. Chissà dov’erano in quell’occasione gli attivisti che hanno sommerso di cause il Circo Barnum, contribuendo così al suo fallimento.

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Regista, sceneggiatrice e giornalista professionista. Ha svolto il praticantato a Paese Sera, è stata nella redazione di Filmcritica, ha pubblicato anche su Il Manifesto, La Repubblica, Liberazione, Avvenimenti, Cinema D'oggi, Filmcronache, Visto, Ocula, Cinebazar, Plot di Affabula Readings. Consulente dell'Enciclopedia del Cinema Treccani per la Corea, ha pubblicato vari libri tra cui "Spike Lee" (Il Castoro), "Tecnocin@" (Costa & Nolan), "La chiave del cinema DUE. Tecniche segrete per realizzare un film di valore" (Universitalia), “Tutta un’altra storia. La scrittura creativa in pugno” (Universitalia), “10 Mondi-Storie” (Universitalia). Con "La Donna Luna in Azzurro" ha vinto il Gabbiano d’argento al Festival Anteprima per il cinema indipendente italiano di Bellaria (1986) e una Menzione Speciale al Salso Film&TV Festival (1987). Ha rappresentato l’Italia alla B’Biennale di Salonicco (1987). Finalista al Premio Solinas (2000) con il racconto “Latte Dolce”, nel 2003 fa parte del Consiglio Editoriale del Premio. Nel 2004 la sceneggiatura “THE DORA (a true story)” è selezionata da SOURCE 2, Script Development Workshop. Con “Love Conquers Mountains” è tra gli autori del concept film “Walls and Borders”. Docente di Metodi e tecniche della produzione video 3 all'Università di Firenze. Titolare di Regia presso l'Accademia di Belle Arti di Roma. Dal 2009, è anche Referente del Triennio in Teorie e Tecniche dell'Audiovisivo.

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