Il sogno di un’Italia o il suo incubo?

foto Marco Olivotto

«È una notte in Italia che vedi…». Una lunga notte, spesso cupa, ancora più spesso incerta. Ma di notte si sogna. Si richiama alla mente il mondo in cui viviamo per come i nostri ricordi lo hanno registrato, si immagina per come potrebbe diventare. Sul palco del Teatro Carcano di Milano, in una notte di gennaio, non può dunque che prendere vita Il sogno di un’Italia. Soprattutto, di ciò che l’Italia è stata in ventennio molto preciso, quello che inizia con gli anni Ottanta. Gli anni in cui il nostro Paese è diventato, inesorabilmente e a passi sempre più rapidi, ciò che conosciamo.

Un ventennio che si è aperto con un giorno che ha segnato come pochi altri la crescita dei bambini di allora, i quarantenni di oggi. Quello in cui Enrico Berlinguer ha tenuto a Padova il suo ultimo comizio, portandolo a termine mentre veniva colpito un ictus. Con la sua morte, a venir meno non è soltanto un leader politico, il rappresentante di un’idea. Con lui si spegne molto di più: Il concetto stesso di appartenenza. È in quel giugno che cala la notte. A sostenerlo è un sodalizio ormai rodato, formato dal giornalista Andrea Scanzi e da Giulio Casale, musicista che ormai nei teatri ha trovato una delle dimensioni a lui più congeniali. Se il primo si fa carico della cronaca, del racconto, al secondo compete in primo luogo richiamare alla mente la musica che in quegli anni correva alle orecchie di tutti. La notte ha la sua «musica leggera», attento termometro dei tempi, spesso più di quanto si è in grado di accorgersi.

E la musica degli anni Ottanta è fatta per ballare, per alleggerire il pensiero e il cuore in notti fatte di luci stroboscopiche e poco di più. É una musica e un tempo che vuole fuggire, immergersi in una eterna festa per dimenticare il buio. E tuttavia esso esiste, e deve essere attraversato.

Così si è costretti a procedere a tentoni, agguantando i pochi appigli che si ha la ventura di incontrare. Ma nel naufragio delle grandi appartenenze precedenti i canoni si rovesciano e l’angosciosa solitudine di ciascuno placa la sua fame di appartenenza dove può: nella musica, nello sport, al cinema.

E così il posto di Berlinguer viene occupato da altri uomini, che a modo loro tra il compromesso di interrompersi e il rischio di finire le loro parole hanno preso la seconda strada. Uomini come Ayrton Senna e Massimo Troisi, la cui scomparsa ha lasciato i ragazzi di allora completamente soli.

Su queste radici nascono gli anni Novanta. Gli anni delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, gli anni in cui anche il giudice Antonino Caponnetto, piegato dal terrore che tutto sia finito, sceglie. E gira le scuole, chiedendo agli stessi ragazzi la promessa di non dimenticare Falcone e Borsellino. E per un attimo, quei ragazzi ci credono, si sentono chiamati, personalmente.

Ma c’è la voce di Monicelli e Parri – non certo due disfattisti – a ricordare che la speranza è un’illusione. Come un’eco di queste parole, nasce il berlusconismo con le sue caricature, che accompagna una promessa tradita. Tradita fino al sangue di Genova, del G8 del 2001, fino alla «più grande sospensione dei diritti umani dalla seconda guerra mondiale».

Una corsa a perdifiato, una slavina su cui, come sulla morte di Carlo Giuliani, non si è stati mai disposti ad approfondire. A fare da colonna sonora a un racconto che procede per suggestioni, fluidamente, una colonna sonora scelta con attenzione – che vede la collaborazione agli arrangiamenti di Lorenzo Corti – spaziando fra Giorgio Gaber e Franco Battiato, ma anche Edoardo Bennato e Jeff Buckley. Momenti in cui Giulio Casale sfrutta le potenzialità tutte le potenzialità del teatro-canzone e una mimica da attore ormai acquisita, accanto ad Andrea Scanzi che dimostra le sue qualità di avvincente narratore.
A sostenere l’insieme una regia – firmata Angelo Generali – che non lascia il peso della messa in scena sui due protagonisti, ma costruisce intorno a loro una architettura scenografica, spaziale e di movimenti scenici, ancorchè semplice, cui bastano poche sedie, una machina da scrivere e un fondale proiettato per rendere evocativo l’insieme e compiuta la sua realizzazione. Un excursus doloroso eppure necessario che colpisce tanto da generare nel pubblico – che in quei ragazzi oggi adulti si ritrova – qualche voce sorpresa dall’effetto di una simile enumerazione, che radiografa spietatamente una società che si corrode dall’interno.

Senza speranza? Non necessariamente. Forse un «taglio di luna» esiste, ma a prezzo della fatica del Pirata Marco Pantani, l’ultima appartenenza venuta meno lungo questo viaggio, nel 2004. Ciò che resta da fare è seguire il suo esempio: «Scattare per abbreviare l’agonia».

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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