ArteFiera. Questa edizione

ARTEFIERA Courtesy ARteFiera Bologna 2017

E come prassi, alla fine della fiera, ci sono i bilanci. È inutile negarlo: le aspettative nei confronti della 41esima edizione erano abbastanza (se non molto) elevate. L’incarico della direzione artistica affidato ad Angela Vettese ha, infatti, fatto muovere molti dei disaffezionati dell’appuntamento bolognese. Le dichiarazioni di intenti dei tentativi di rinnovamento esplicitati in copiose interviste hanno poi definitivamente convinto anche i più scettici. Con il chiaro proposito di conferirle definitivamente l’identità di una fiera d’arte prettamente italiana, conclusa la visita, come al solito ci si ritrova a fare le solite e trite considerazioni: che cos’è una fiera? Cosa ci si aspetta da una fiera? A mio avviso il gap è tutto qui. Perché, in manifestazioni simili, si ritrovano contrapposte due posizioni distinte e, secondo me, difficilmente conciliabili.

Da un lato c’è l’esposizione tout court, ovvero un mercato finalizzato esclusivamente alla vendita; dall’altro una fiera che è una “fiera d’arte” nella quale ci si aspetta di trovare quelle proposte culturali correlate alle produzioni artistiche (e da qui, infatti, la nomina dei direttori artistici che, a mio avviso, hanno una visione altra, e non commerciale dell’evento, ma questo è un altro discorso). Quindi, gli espositori, vale a dire i galleristi, seppure molti hanno la volontà di presentare delle proposte culturali, dei lavori che pongano delle domande e che esprimano una continua ricerca, alla fine sono sempre dei mercanti, che devono vendere quanto esposto. Se a ciò si aggiunge anche il dettaglio (neanche tanto dettaglio trascurabile) che molti galleristi oltre ad essere improvvisati, non hanno ben chiaro il lavoro di gallerista, possiamo avere il quadro completo della situazione. Perché questa premessa e questa precisazione? Perché, la maggior parte delle volte che si esce da una fiera, si rimane alquanto delusi, perché non si trovano gallerie e lavori di un certo spessore. Ovviamente la mia è una generalizzazione voluta, per delineare lo spazio della mia riflessione. Perché, in ogni fiera, ci sono sempre delle grandi eccezioni, delle gallerie che incantano per la proposta e per come viene offerta; come ci sono dei lavori che ti tolgono il fiato, tale è la loro potenza.

Tralasciando i distinguo, che aprirebbero dei rivoli di discussione infiniti, scelgo di rimanere nei margini della generalizzazione per compiere insieme anche a chi legge una riflessione ampia.

Quest’edizione è risultata profondamente estetica, ha cercato di mostrare i muscoli  alla storia, andando a rispolverare linguaggi artistici del passato, come l’optical art e l’arte cinetica, proposta da un numero elevato di gallerie e in tutte le salse. Inoltre, la scelta di mischiare gallerie che propongono artisti storicizzati con gallerie che invece investono principalmente nella ricerca e nella proposta di nuovi artisti, risulta destabilizzante e tutt’altro che vincente, a partire dagli stessi pubblici e collezionisti che sono totalmente diversi. Il risultato è stato quindi di una fiera che non ha osato, che ha preferito rimanere nella sicurezza, mostrando molta di quella che chiamo “arte da parete” (pittura) e pochissimo delle altre forme, come la scultura e praticamente inesistenti le installazioni. Attuando una grossa scrematura iniziale delle gallerie partecipanti, demandando a loro la proposta, seppur è un segno di responsabilizzare le gallerie, dall’altra appare molto come deresponsabilizzarsi degli esiti.

Ma ritornando a bomba, parlavo delle due forze contrapposte, che forse con difficoltà si possono incontrare. Ma davvero non si possono incontrare? Realizzare una fiera in cui alle gallerie sono richiesti degli standard minimi, come allestimento e proposta, non è forse possibile? E per standard minimi intendo essenzialmente due cose: una di ordine teorico e una di ordine pratico. Dei paletti concettuali (anche storici) entro i quali le gallerie possono muoversi; pratico strettamente legato all’allestimento, a partire dall’apposizione di etichette (leggibili) con nome e cognome dell’artista, titolo dell’opera, tecnica e anno di realizzazione e, perché no, anche prezzo? Perché nonostante esporre il prezzo faccia molto mercato spinto, in fondo siamo sempre a una fiera. E se io voglio sapere il costo di un lavoro, non sempre ho davanti a me un gallerista predisposto alla chiacchiera e alla presentazione dell’artista e quindi alla sua valutazione. Questo tanto per ben iniziare.

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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