Il Punto Omega e il mito della caverna

Antonio Bilo Canella

No, non è vero che rientra tutto nella sfera delle possibilità creative e delle possibili reazioni dei fruitori; il CineTeatro di Via Valsolda a Roma è in realtà un campo psico-magnetico di concentrazione di pensiero laterale con frange mistico-laiche senza Tempo, ed il pubblico vibra come se fosse un’unica maxi-molecola tutta avvolta attorno ad un nucleo di gran peso concettuale eppure metafisico nel senso anche digital-spirituale del termine, ammesso che questo senso possa esistere nella realtà comune, al di fuori di quella straordinaria cornice underground.

Lo scorso 19 Novembre, infatti, in quel luogo sono accadute “cose”: un insegnante di teatro che si occupa anche di scrittura ha tenuto una riunione per coordinare la partecipazione degli “adepti” ad un suo ambizioso progetto che ha qualcosa di inquietante e definitivo e che coinvolge, oltre a lui, circa 37 autori (almeno in partenza). Costui, in un’atmosfera sediziosa, ha condotto da profeta una lettura teatralizzata di parte del suo testo, prima di suddividere i compiti tra i suoi apostoli, tutti compenetrati nell’impresa, compreso me. A seguire, il vero dominus del CineTeatro, Antonio Bilo Canella, dopo una lunga e riservatissima fase di warming up, svolta da lui insieme solo al socio che si occupa dell’aspetto sonoro delle sue performances o opere teatrali, è stato trovato dal pubblico, che rientrava a prendere posto dopo la pausa, già assiso in una posizione simil-yoga su di un tappeto adagiato sul pavimento, con il capo coperto da un cappuccio da meditatore suburbano contemporaneo, e via via sempre più in reazione con il filmato astratto minimalista che era proiettato alle sue spalle. Mentre la massa di sottili geroglifici del video si espandeva dal punto centrale diffondendosi a tutto il quadro accompagnato da un suono perturbante in crescendo, Bilo Canella, auscultando il flusso dell’essere scorrere dentro le  sue/nostre radici antropologiche semisepolte, lasciava andare un grugnito tensivo che poi diveniva urlo, restando tuttavia pur sempre modulato all’interno della fenomenologia globale dell’evento, evocando anche paure semiconsce del pubblico e, con esse, la chiave per risolverle in un bacino comune di forza primigenia. Quando questa fase si è interrotta, l’artista, in questa versione monadica da sciamano solitario, si è alzato dal suo giaciglio e, in preda alla sua tipica vocazione alla ricerca di un senso profondo nell’improvvisazione scenica, si è avvicinato ad una giovane donna presente tra il pubblico e seduta sulla sinistra, quale ultimo avanposto laterale del folto gruppo di avvinti spettatori, e l’ha approcciata in modo ravvicinato, fino ad abbracciarla all’altezza del ventre, mentre lei restava seduta e, raccogliendo dalle mani di lui un cuscino bianco, spinta da una ondata di superiore empatia sollevava il guanciale in alto a braccia tese, conferendo alla figurazione a due un qualcosa di ieratico e sacrale. Lui si è cullato a lungo in quella posizione, attingendo alle energie primarie di Gea, la Madre Terra, o ricordando flashes della sua e della nostra esperienza fetale. Quando infine, dopo aver anche vocalizzato qualche sommessa e incomprensibile evocazione carica di un pathos di commovente rimpianto dell’oblio primevo dell’umanità, si è staccato dall’abbraccio, c’è stata, dopo una transizione di raccolta di energie più laterali, una nuova sezione dell’estemporaneo percorso da trance-acting, durante la quale l’artista si è aggirato tra il pubblico della zona centrale della platea, entrando in sintonia prima con una persona e poi con un’altra, me, contando sulla nostra ricettiva sintonia del suo essere ultra. Io personalmente ho ricevuto da lui dei morbidi colpetti sullo sterno, che ho assorbito simbioticamente e flessuosamente, ogni volta dondolando all’indietro per poco, restando seduto, e poi tornando avanti, come un giunco mosso da correnti sottomarine oppure come un discepolo zen che si flette docile alle stimolazioni del suo maestro di disciplina. Successivamente il performer ha apposto le sue mani attorno alla mia testa con chiare intenzioni artistico-taumaturgiche livello sbracomiao 7+, ed io ho lasciato che le impercettibili good vibratons meta-razionali venissero a saldarsi con i miei più maturi e buffi sommovimenti fanta-fisiologici dell’inconscio, determinando il consolidamento massiccio di una mia già preesistente, surreale e semiseria disposizione cosmo-flipper-psichica generale. Sarei stato tentato di consigliare l’esperienza a chi ne ha bisogno più di me, tipo Leandro Sbreccialossi, che soffre di gotta, e Battistina Raperonzoli, che è afflitta dalla cirrosi epatica, se non fosse che, tornando a casa in macchina, quella sera, non sono sfuggito ad un attacco di starnuti, per cui raccomanderei a tutti, specialmente in questa stagione freddina anzichenò, di farsi per amico un medico oltre all’attore di teatro sperimentale, e di tenere sottomano un più pratico e sanitariamente ortodosso Ventolin, che rimane pur sempre un cult, quindi particolarmente congeniale a questa rivista dedita alla cult(ura) e utile poi come talismano da taschino almeno per qualcosa, anche se, come lo sciamano da teatro, non ci si può aspettare che guarisca anche dalla varicella! :D Quando poi l’altro sé di Bilo Canella ha sentito esaurirsi il suo compito, ha compiuto una regressione molto lenta, incerta e faticosa verso il punto di partenza, ancora con l’accompagnamento del video e/o del suono montanti e scemanti ritmicamente, finché, svuotato, è rimasto a gambe incrociate, a terra, aspettando di riprendersi completamente dall’immersione nell’altrove. L’umiltà di chi si fa mero strumento di un principio ineffabile è emersa dalle sue sussurrate, stentate dichiarazioni dell’immediato dopo-trance, con cui si scusava di non esser riuscito a fornire un finale più scenico o teatrale alla performance, proprio per il suo esserne rimasto sopraffatto… “È andata così, è finito così…” e la semplicità di questo exit è sembrata il sincero riconoscimento di chi non può riuscir sempre a contemperare il “mestiere” con il soprannaturale. Il pubblico, partecipe, ha apprezzato, sia intimamente che esteriormente, con il lungo e sentito applauso.

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Ma facciamo un altro esempio, di quello che fermenta nel Cine-Teatro di via Valsolda 177, a Roma. Nella religione nazionale, e non ci riferiamo al dio Denaro, quel che conta è l’ortodossia rispetto ad un testo sacro, che tutti conoscono ed intorno al quale proliferano interpretazioni come cerchi concentrici; nella particolare espressione dell’Arte che si è andata manifestando il 4 e 5 Febbraio 2011, in questo teatro, ma anche nell’occasione sotto l’egida dell’associazione Agit Art, quel che ha potuto fungere da fulcro attorno al quale si sono avvolte le disposizioni dei performers, è stato un testo ugualmente sacro, ma non scritto. Un testo la cui sacralità peraltro si origina dalla universalità del messaggio, che parla all’uomo del presente spingendolo a fargli assumere la giusta forma, la giusta identità collettiva, quella che potrebbe essere l’habitus mentale e sociale dell’Uomo del futuro. Il “discorso” messo in scena col titolo di Punto Omega è analogico, nel senso che si propaga per analogie; i due attori, l’iraniano Hossein Taheri e il romano Antonio Bilo Canella, hanno lavorato su un arcipelago di testi, a partire (forse) da Theodore Sturgeon, uno dei maestri della “vecchia guardia” della fantascienza, e seguendo lo spirito di un suo romanzo intitolato “Più che umano”, ma anche di alcuni racconti, tra cui “La danza del cactus” e “I figli dei commedianti”, e sono arrivati a metterli in relazione tra loro e con Ignazio Silone, Celestino V e Bonifacio VIII, includendo anche Teilhard De Chardin, il filosofo-gesuita che teorizzò la noosfera e un evoluzionismo neo-umanista che portasse sia la materia che lo spirito verso il Punto Omega. Una galassia di riferimenti che non hanno un’attinenza stretta in senso filologico, eppure hanno fornito una ispirazione unitaria, che convergeva, per altro verso, con la metodologia, anzi forse dovremmo dire con l’euristica, dei due attori/performer. Fermo restando però il lungo processo di assimilazione delle fonti, va specificato con chiarezza che i due continuano anche in scena a ricercare e scoprire quello che presentano, che infatti è il frutto di un’improvvisazione spinta a livelli in cui il concetto stesso di performance diventa “frastornante”, deve piuttosto essere sostituito, spiega Bilo Canella, dal termine “performAzione”, che indica un’ azione colta nel suo farsi, mentre prende forma, e che non ha come obiettivo una forma testuale definita, perché dopo aver passato la fase di “fagocitazione” dei testi ed aver dato luogo agli accadimenti “onirici” che si sviluppano in forma di interazione sulla scena, ogni riscrittura costituirebbe solo una noiosa rivisitazione dell’evento unico ed irripetibile dispiegatosi davanti agli occhi degli spettatori, anch’essi presenti come ulteriore input. Il terzo performer, poi, quell’Alessio Fralleone noto al grande pubblico internazionale non tanto per aver vinto la IX edizione del Marte Live contest nella sezione Pittura senza aver corrotto la giuria, ma per avere l’austriaco Alfred Kubin tra i suoi primi ispiratori e per i suoi vigorosi live-panting (che recentemente lo hanno portato a Londra per una performance filmata quasi one-day-long), è entrato in gioco, in questo Punto Omega, sia subliminalmente come figura schermata (fin troppo) da una asettica tenda di plastica semi-trasparente, dietro cui dipingeva dal vivo una sorta di “murale” cosmico, e sia dopo, quando l’azione drammaturgica s’era appena conclusa, come autore “primitivista” dotato di una forza “ulteriore” che gli ha permesso, in quel “fuori campo” a lui riservato, di compiere l’unica, finale, rivelazione di senso di cui restasse qualcosa di materiale, anche se era altrettanto enigmatica, magmatica: l’opera pittorica, al tempo stesso ascrivibile al suo stile riconoscibilissimo e tuttavia “forzata” dall’immedesimazione continuata, e ricettiva all’estremo, di tutte le suggestioni derivate dalla “situazione”: l’azione degli attori, i concetti, la spiritualità, l’onda emotiva di ritorno che promanava dagli spettatori.

E torniamo ai concetti-chiave di questo progetto: il tentativo di ricostruire uno stato di puerilità, nel senso relativo ad una condizione di “puer eternus”, rifletteva l’immagine sturgeoniana di un’umanità sopravvissuta a se stessa, capace di fondersi telepaticamente in una nuova entità, potente e ambigua. L’aspetto della “fanciullezza scenica” degli attori, il rimanere fanciulli in scena, sorprendersi, sorprendere, non sapere esattamente cosa succederà “agli estremi del teatro”, si mette da solo in relazione con la ricerca borderline di una forza altra, con cui si entra in contatto solo alterando la propria identità in direzione di un futuro visionario, e infatti l’umanità residuale descritta da Sturgeon, composta da bambini, vagabondi, minorati mentali, emarginati, riesce a connettersi così come si connettono miliardi di cellule a formare un singolo uomo o miliardi di neuroni a formare un unico cervello con una coscienza. De Chardin presentiva che l’umanità, se non rinuncia alla logica in base a cui ha finora vissuto in chiave individualistica, arriverà ad una deflagrazione centrifuga delle identità; se invece trova la via per raccogliersi in un nucleo “Più che umano”, può raggiungere il Punto Omega, grado di consapevolezza suprema e forma gestaltica perfetta dell’umanità, “uomo ottimale”; se si vuole, “superuomo”. Mettendo dunque in discussione la nostra concezione attuale di esseri umani, e collaborando ad uno stadio di abbandono allucinatorio, di fiducia integrale nell’”altro da sé”, si può generare una super-identità che abbia comletamente trasceso i conflitti egotici o i pregiudizi sociali.

E’ evidente che l’idea rappresentata si fa in questo caso tutt’uno con i modi della sua rappresentazione. Il “gioco sacro” con cui i due attori ed il pittore si offrono, si donano, li pervade di una sensazione di grande be-nessere, eppure al tempo stesso la dimensione trascendentale che si attiva ha anche un aspetto inquietante, ctonio, terrigno, e ciò trova il suo corrispettivo nella situazione descritta da Sturgeon: un’umanità terminale, in condizioni drammatiche, è costretta ad appellarsi a questa grande risorsa umana finora inesplorata, per raggiungere l’obiettivo di una mega-razza, o meta-razza, verso la quale già oggi stiamo tendendo, al di là dei residui di vecchie mentalità retrograde. Con il melting pot che già da un po’ stiamo sperimentando, nel mondo globalizzato del terzo millennio, il meglio delle diverse civiltà potrebbe portare ad organizzarci secondo ciò che è più congeniale all’uomo, sfruttando la facilità di comunicazione, di spostamento, di scambio.

E a proposito del melting pot, e della contaminazione tra i linguaggi, la stessa disperazione allucinata, la stessa distorsione delle prospettive con cui si è aperto lo spettacolo della serata di Punto Omega, e che ha gettato nello sgomento alcune giovani spettatrici non aduse a confrontarsi con scenari fantascientifici apo-calittici e con esseri umani residuali, poi trascolora in altri momenti in cui l’ironia, e perfino il trash nostrano, si alternano al misticismo stellare e alla deriva psicanalitica. I due protagonisti, infatti, sono due sopravvissuti che rivedono continuamente i loro ruoli di giovane malato, padre premuroso e madre immaginaria, giun-gendo, in questo tourbillon, a interpretare tutte le possibilità umane, a sollevarsi verso l’indicibile e poi tor-nare al punto di partenza ribaltato da una maschera binaria, nella consapevolezza avanzata che è possibile tanto avanzare verso un sublime che spaventa, quanto precipitare verso un’estinzione che faccia trovare pace alle tante autoreferenzialità individuali.

Gli stessi attori, che si definiscono “due favolosi idioti” in omaggio al racconto di Sturgeon che funse da base allo scrittore americano per realizzare “Più che umano”, si divertono in senso etimologico, come pazzi che si distolgono dalla realtà sì, ma quella del teatro borghese, e la loro fisicità, che, volta altrove, esplode sia il meglio che il peggio delle inclinazioni umane, si rivela come il risultato di un enorme affiatamento, che fa sì che uno di loro possa salire in piedi sul ventre dell’altro o tentare amorevolmente di soffocarlo senza creargli danni permanenti. L’energia che si sviluppa non può mai essere competitiva, piuttosto si consuma nel segno di una comunione anche col pubblico, trasformato in “assemblea dei fedeli”.

Se è vero, com’è vero, che ai due attori non interessa intessere una storia orizzontale razionale, cioè parlare seguendo un canovaccio piuttosto predeterminato e rigido, come mediamente il teatro borghese fa, è altret-tanto vero che l’apparizione di Alessio Fralleone, al termine dell’azione a due, assume, secondo noi, come già prima abbiamo accennato, il valore di una meta-performance nella performance, ovvero proprio quella ri-scrittura (per immagini, però) che a quest’opera teatrale così pregnante e delicata sarebbe altrimenti man-cata, la trascrizione in stato di trance autoimposta e ultrasoggettiva, di uno spettatore non partecipante ma a-gente, che proietta le sue percezioni sullo sfondo della coscienza di tutti i presenti, un po’ come se fosse uno dei  prigionieri del notorio “mito della caverna” di Platone, intento però a dipingersi da sé i suoi valori di riferi-mento, e come se gli spettatori fossero i prigionieri della caverna finalmente abilitati a vedere, cioè ricon-ciliati, sia con la realtà vera di questo futuro “ottimale”, sia con la grezza apparenza delle nostre imperfette ma toccanti ricostruzioni. È la coscienza ancora vetero-umana che si esprime, pittura rupestre, antropologia culturale allo stato espressionista dell’urgenza corporale, che si confronta con il medium della narrazione teatrale a tutto tondo ma proiettata verso un futuro ancora insustanziale, ma di cui gli spettatori colgono il senso appunto guardando non-mediatamente gli astri splendenti di questa nuova conoscenza. La conoscenza raggiunta dal fisico Frank Tipler, che “riscrive” l’idea del Big Crunch ipotizzando che l’universo si stringa in uno spazio circoscritto e si contragga all’infinito, per rigenerarsi così, al Punto Omega, con ener-gia sempre nuova senza morire mai.

Il coinvolgimento seppur marginale di Christian Muela, ormai noto suonatore di didjeridoo con un suo seguito, e già da me recensito sia come solista che in gruppo con gli “An Einen Baum”, è stato anch’esso sufficientemente mirato, perché il musicista, posizionato nel foyer del teatro, ha provvisto il lungo aperitivo, che ha preceduto lo show, di un sottofondo di suoni da “world music” in qualche misura appropriati, perché possono sia preludere a manifestazioni tribali di un nuovo medioevo post-nucleare, sia alludere a neo-tribalismi urbani e suburbani, sia semplicemente riportare alla coesione degli aborigeni australiani (da cui lo strumento è stato scoperto) nei loro villaggi, unità sociali ben più ricche di solidarietà e armonia degli agglomerati convulsi di cemento e metallo su ruote in cui ci vantiamo di abitare. Muela, il cui padre proviene dallo Zaire, ha soffiato nel lungo ramo cavo (qual è il didjeridoo), oltre al suo fiato, sia – nella mia divertita interpretazione – l’onomatopea d’un trillo mimato, sia il lamento d’un corno inglese, tanto il sordo brontolìo d’uno sciamano di Haiti dopo il terremoto del 2010, quanto le invocazioni pseudo-africane di un drugo alla Lebowski, e forse anche i bruciori di stomaco d’un satrapo della Tessaglia, ed i suoi ritmi ansanti e trascinanti sembravano anche avanzamenti d’un pensiero beat nel traffico d’un Mexico City Blues (di Kerouac), ed i suoni con la bocca infatti, come ci ha confermato lo stesso Muela, si chiamano effetti da Big Box, una scatola in cui si può trovare di tutto, comprese le ritualità sessuali chic che Kubrick ha elegantemente visualizzato col suo Eyes Wide Shut (ripensate alla colonna sonora di alcune scene).

I due attori di Punto Omega si ricollegano, nella loro prassi scenica, agli attori antichi, “che andavano inva-sati dietro un carro pieno di gente che beveva vino e ad un certo punto impazzivano, saltavano sul carro e cominciavano a raccontare di miti, di Dioniso, ecc…” e al contempo, secondo la logica del sincretismo antro-pologico culturale, si sentono, in questa epoca, “attori del futuro”. Del resto, a proposito della dimensione dell’improvvisazione, da loro davvero vissuta fino in fondo, Hossein Taheri ha dichiartto: “Il testo, teatral-mente, è da sempre stato un pretesto perché succedesse qualcosa”, e Antonio Bilo Canella ha aggiunto: “A volte, rivedendo i nostri video, a posteriori ci rendiamo conto anche del senso. Ma solo successivamente. Lì per lì è come se vivessimo una reale possessione”. In effetti, questo lavoro va anche al di là della ricerca teatrale, si allarga, divenendo – in controtendenza rispetto al cinismo dilagante – bisogno dell’umanità.

 

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il7 - Marco Settembre, laureato cum laude in Sociologia ad indirizzo comunicazione con una tesi su cinema sperimentale e videoarte, accanto all'attività giornalistica da pubblicista (arte, musica, cinema) mantiene pervicacemente la sua dimensione da artistoide, come documentato negli anni dal suo impegno nella pittura (decennale), nella grafica pubblicitaria, nella videoarte, nella fotografia (fa parte delle scuderie della Galleria Gallerati). Nel 1997 è risultato tra i vincitori del concorso comunale L'Arte a Roma e perciò potè presentare una videoinstallazione post-apocalittica nei locali dell'ex mattatoio di Testaccio; da allora alcuni suoi video sono nell'archivio del MACRO di Via Reggio Emilia. Come scrittore, ha pubblicato il libro fotografico "Esterno, giorno" (Edilet, 2011), l'antologia avantpop "Elucubrazioni a buffo!" (Edilet, 2015) e "Ritorno A Locus Solus" (Le Edizioni del Collage di 'Patafisica, 2018). Dal 2017 è Di-Rettore del Decollàge romano di 'Patafisica. Ha pubblicato anche alcuni scritti "obliqui" nel Catalogo del Loverismo (I e II) intorno al 2011, sei racconti nell'antologia "Racconti di Traslochi ad Arte" (Associazione Traslochi ad Arte e Ilmiolibro.it, 2012), uno nell'antologia "Oltre il confine", sul tema delle migrazioni (Prospero Editore, 2019) ed un contributo saggistico su Alfred Jarry nel "13° Quaderno di 'Patafisica". È presente con un'anteprima del suo romanzo sperimentale Progetto NO all'interno del numero 7 della rivista italo-americana di cultura underground NIGHT Italia di Marco Fioramanti. Il fantascientifico, grottesco e cyberpunk Progetto NO, presentato da il7 già in diversi readings performativi e classificatosi 2° al concorso MArte Live sezione letteratura, nel 2010, è in corso di revisione; sarà un volume di più di 500 pagine. Collabora con la galleria Ospizio Giovani Artisti, presso cui ha partecipato a sei mostre esponendo ogni volta una sua opera fotografica a tema correlata all'episodio tratto dal suo Progetto NO che contestualmente legge nel suo rituale reading performativo delle 7 di sera, al vernissage della mostra. ll il7 ha quasi pronti altri due romanzi ed una nuova antologia. Ha fatto suo il motto gramsciano "pessimismo della ragione e ottimismo della volontà", ed ha un profilo da outsider discreto!

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