Il reimpiego tra arte medioevale e contemporanea

Arco di dal Colosseo, ph FRANCESCO LADDAGA - settembre 2015

In questo testo intendo investigare e condividere le connessioni attive tra l’arte contemporanea e l’arte medioevale interrogando la pratica del reimpiego come operazione artistica comune. Per farlo, metto insieme cose tanto diverse quanto affini.

Nel 315 d.C. venne terminata la costruzione dell’arco eretto vicino al Colosseo per festeggiare il decennale dell’Impero di Costantino; il monumento, a tre fornici con colonne sostenute da plinti su ogni facciata, è ornato da sculture che appartengono a periodi differenti; vi sono infatti statue e rilievi traianei, rilievi dell’era di Adriano e di Marco Aurelio, nei quali i ritratti degli imperatori sono stati sostituiti dall’immagine di Costantino. Anche alcuni particolari della struttura architettonica provengono da edifici precedenti. Un’esecuzione di questo tipo riflette già quello che a partire da questi anni sarebbe diventato abituale, il riuso di pezzi antichi per monumenti moderni.

Il turista distratto dal mastodontico Colosseo poco ha da che spartire con l’arco di Costantino. Eppure, questa opera può dirgli qualcosa sulle produzioni artistiche a lui contemporanee. In effetti, la pratica del reimpiego sembra segnare la produzione di artefatti che ridisponendo i materiali hanno sapientemente indagato il crescente ruolo ricoperto dal contesto nella reciproca creazione di valori e significato.

Il reimpiego nel senso della riutilizzazione di vecchi e, per lo più, antichi pezzi in un contesto nuovo, analogo o differente, ovvero in un nuovo ordine funzionale, è ravvisabile in tutti i generi di arte, dall’architettura alla scultura, alle arti minori; abbraccia un vasto arco applicativo che arriva a comprendere sia la riappropriazione di antichi edifici nella loro interezza sia il riutilizzo di antiche opere tramite calcinazione, dunque di forme comprese nello spettro che va dal mero sfruttamento materiale fino alla riutilizzazione mirata e alla sua complessa reinterpretazione.

La pratica del reimpiego svolse così un doppio ruolo costruttivo: da un lato pratico nelle ridisposizioni architettoniche, dall’altro teorico proponendo la necessità di una conservazione e tutela di quel che nel tempo sarebbe stato codificato come bene culturale.

Intendo riportare la questione del reimpiego declinata per le opere d’arte meccanizzate, quelle riproducibili di loro natura.  Dunque, segnalare la continuità storica di una pratica che tra materiale e contesto offre i riferimenti di un campo di possibilità nonché uno spazio di gioco in cui poter calare questi interventi.

Il reimpiego che un programma televisivo come Blob fa quotidianamente e da 27 anni degli spezzoni audiovideo che vanno in onda in televisione è la traccia più immediata da richiamare al lettore. Se questi può risultare frastornato dall’accostamento, è opportuno ricordare che la lontananza può farsi più vicina se l’oggetto richiamato appare nella sua immediatezza.

La trasformazione storica del pubblico e del materiale nella mediazione dei media può lasciare intatti i rapporti operativi, una volta fatta luce sui tratti comuni dell’operazione. Inoltre, il cambiamento di patrimonio culturale e di orientamento percettivo impongono una ridefinizione di quelli che sono i materiali ed i contesti in cui queste operazioni trovano spazio. Per insistere sulla portata geoculturale di una operazione del genere ridotta a fenomeno di cultura globale, basti ricordare il reimpiego di una stessa traccia sonora sui tanti diversi video in grado di consegnare alle masse il proprio autoritratto: la traccia di suono fissato Happy, prodotta da Pharrell Williams.

Allargando il campo alla storia della musica elettronica, consideriamo ad esempio le operazioni di Cage nei suoi mix. Senza dimenticare la più recente tradizione definita da John Oswlad plunderphonics, i.e. saccheggiofonia, parola che indica il realizzare musica manipolando fonti sonore ricavate da dischi di altri musicisti. Una definizione, ispirata in parte al concetto di cut up dello scrittore William Borroughs, ben espressa dal musicista durante un’intervista avvenuta nel 1988:

«Un plunderphone è una citazione sonora riconoscibile, che presenta effettivamente il suono di qualcosa di familiare che è già stato registrato…»

Senza far scemare la nostra attenzione per il visuale, si potrebbe far riferimento a quella pratica di montaggio in azione nella complessa opera Histoire(s) du cinéma del regista francese Jean-Luc Godard. Il reimpiego è dichiarato già nel titolo, con le storie del cinema elevate ad archivio.

Conservando questa chiave di lettura diventa in questo modo possibile il passaggio dal cinema militante al videomilitante. La tecnica più accredita per praticare la guerriglia televisiva o contro la Tv è stata lo zapping, trasposto dal cut up letterario di William Barroughs ai programmi televisivi. Accumulare frammenti è stato, alle origini del video, accanto alla ripresa in tempo reale (della durata equivalente alla lunghezza della bobina), il procedimento più comune (riunire oggetti disparati in un posto unico). Nello strappare una sequenza da un contesto e mescolarla con altre prese da contesti diversi, si declina una pratica propria e specifica  del dispositivo elettronico, il frammento che compone un nuovo discorso a partire dalle estrapolazioni effettuate in direzione, all’origine, comico-dissacrante – antitelevisiva, radicale ed eversiva – e poi semplicemente formale e spettacolare. S’installa con il dispositivo elettronico l’archivio come repertorio da cui prelevare immagini, in direzione di una neutralizzazione della differenza fra reale e simulacro oltre che fra i generi.

Proprio perché effimera, la televisione basata sulla messa in onda dei programmi, ha promosso, di converso, il sistema dell’archivio, ovvero della conservazione per successive repliche dello stesso programmai. Si faccia riferimento alla funzione replay, attualmente tanto incensata, che permette l’audio-visione in streaming. Ed eccoci ritornati a Blob, nella speranza che il lettore ne abbia guadagnato in chiarezza.

Resta da chiederci cosa muove il reimpiego, inteso tanto come soggetto quanto complemento oggetto della precedente frase. Infatti, la questione delle motivazioni del reimpiego e della connotazione delle spoglie sono assai varie e possono coesistere tra loro in diverse combinazioni e con differente accentuazione. Tra le ragioni del reimpiego la prima è quella del puro valore materiale: quando si è circondati dalle rovine è comodo poter disporre di pezzi già pronti per nuove costruzioni e, in senso puramente materiale, il reimpiego è esistito in ogni epoca.

Oltre a questo motivo, pur se spesso in stretta connessione, sussistono ragioni di valutazione estetica in base alle quali la bellezza della forma, il pregio del materiale sono intenzionalmente esibiti ed ostentati nel reimpiego. In ogni caso la semplice disponibilità del pezzo antico spesso non ne spiega il reimpiego: essa è un presupposto necessario, ma il più delle volte non sufficiente. Più interessante dell’offerta è, anche in questo caso, la domanda, poiché essa rende visibile la percezione, la sensibilità, il programma che conferisce al reimpiego un significato, una dimensione spirituale: l’antichità, una volta riusata, dona alle costruzioni, oltre alla bellezza e alla sontuosa monumentalità, anche quella patina di antico che ne accresce il rango. Se questo è vero per la storia dell’arte medioevale, è vero solo in parte per la storia dell’arte contemporanea, che ha visto insediarsi altri valori a suo sostegno.

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Antonio Mastrogiacomo vive e lavora tra Napoli e Reggio Calabria. Ha insegnato materie di indirizzo storico musicologico presso il Dipartimento di Nuovi Linguaggi e Tecnologie Musicali del Conservatorio Nicola Sala di Benevento e del Conservatorio Tito Schipa di Lecce. Ha pubblicato “Suonerie” (CD, 2017), “Glicine” (DVD, 2018) per Setola di Maiale. Giornalista pubblicista, dal 2017 è direttore della rivista scientifica (Area 11 - Anvur) «d.a.t. [divulgazioneaudiotestuale]»; ha curato Utopia dell’ascolto. Intorno alla musica di Walter Branchi (il Sileno, 2020), insieme a Daniela Tortora Componere Meridiano. A confronto con l'esperienza di Enrico Renna (il Sileno, 2023) ed è autore di Cantami o Curva (Armando Editore, 2021). È titolare della cattedra di Pedagogia e Didattica dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria.

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