Alda Merini, La pazza della porta accanto. Quando la porta è chiusa.

Poesia, da poièin: fare, costruire, produrre. Cosa accade quando viene portato in un luogo dove tutto è proibito, persino esistere? A rispondere a questa domanda c’è la vicenda, la vita di Alda Merini, poetessa. Internata a trentasei anni su richiesta del marito. “Schizofrenia paranoide”, dicono le cartelle cliniche. A casa, sono rimaste due bambine.

È una vicenda per sommi capi nota, quella messa in scena al Teatro Menotti di Milano. La notorietà della poetessa milanese ha permesso che anche chi non ne ha mai letto l’opera fosse a conoscenza dei periodi trascorsi rinchiusa in manicomio (o istituto psichiatrico, che dir si voglia). Nota eppure familiare, non solo ai milanesi, “La pazza della porta accanto”.

Le biografie però si fermano qui. Cosa succedeva tra quelle spesse mura alte quattro metri lo raccontano le parole intense di questo testo di Claudio Fava. E le poesie della Merini, che si aggrappa alle parole per cercare di dire la propria rabbia, la propria disperazione, salvarla. Scrive perchè deve, anche se vorrebbe «solo vivere».

Ed è tra le sue parole e quelle di Fava che troviamo donne senza nome, ridotte a una lettera. A segni di impronte “rubate” da un documento, uniche tracce di chi non conosce più il proprio volto, perchè non ha specchi dove rifletterlo.

In questo scampolo di umanità derelitta si trova una scheggia di ciascuno. L’artista, la ninfomane, la devota. E poi Alda. Vitale e disperata. Cui tutti non fanno che chiedere poesie. Le compagne e i medico, che ripete di non volere altro che curarle, circondato da infermiere ancor più disperate. La ricetta del dottore all’apparenza così umano è la stessa: pillole su pillole. E gli elettroshock, una volta a settimana.

Così la lucidità delle internate lentamente cede. Basta un attento e affascinante gioco di luci a mostrarle come l’ombra di se stesse.

La regia di grande intelligenza di Alessandro Gassmann costruisce un architettura sorprendente, del genere che le ridotte possibilità tecniche ed economiche dei teatri oggi concedono sempre meno. Un palco di dimensioni notevoli permette lo scorrere di due pareti apparentemente possenti (e molto simili a quelle dell’istituto Pini di Milano, in cui la poetessa fu rinchiusa) e di enormi grate nere. Il mutare continuo della loro disposizione crea un gioco ininterrotto di pieni e di vuoti nello spazio, interno ed esterno delle stanze, costrizione e attimi di respiro. Che non è mai libertà.

Non solo perchè è noto che i cancelli siano sempre chiusi, ma anche grazie a un velo di tulle nero calato davanti al palcoscenico, che dà una nuova interpretazione a un’espediente che corre il rischio di essere ormai trito. Infatti non si limita a permettere proiezioni scenografiche ed impalpabili, ma consente di far calare un velo cupo anche sullo sguardo dello spettatore, dietro il quale ogni gesto anche minimo è calibrato nei suoi minimi dettagli, in una sorta di costruzione cinematografica che sembra suggerire l’idea di una serie di rapidissimi fotogrammi curati fino al dettaglio più infinitesimale, quasi che ciascuno esistesse per sussistere autonomamente.

Dietro alle grate Alda sembra avere ancora la forza di dibattersi, spinta da una inestinguibile fame di vita e amore.

E per un attimo, sembra la sua luce, persino in quel luogo, possa vincere. Persino tra quei muri, lei sa far nascere l’amore del giovane e timido Pier, Liborio Natali, abilissimo in un ruolo complesso.

Anche li può affacciarsi una vita nuova. Solo apparentemente. Il frutto di questo amore, la sua terza figlia, nata proprio tra quelle mura, le sarà strappata.

Allora forse non ci si può liberare davvero. L’unica soluzione è scegliere di dimenticare. Rivedersi nelle loro vesti tutte uguali, sui toni di un senape volutamente insipido cui non sfuggono neanche gli inservienti.

Sarà Basaglia a cambiare le cose. Ad aprire le grate e le porte. Quando più nessuno se lo aspetta. Il velo viene meno e la luce della vita fuori di là può riprendere a splendere. Battendo su cicatrici che sono però destinate a non rimarginare mai.

A popolare il manicomio è un folto gruppo di interpreti, un’altra evenienza poco comune negli ultimi anni

Angelo Tosto, Alessandra Costanzo, Sabrina Knaflitz, Olga Rossi, Cecilia Di Giuli, Stefania Ugomari Di Blas, Giorgia Boscarino, Gaia Lo Vecchio offrono una buona prova, ma a giganteggiare è Anna Foglietta, nei panni della poetessa dei Navigli, intensa e mai stucchevole, emozionante senza bisogno di cadere mai nel patetismo.

Ne risulta uno spettacolo autenticamente capace di affascinare il pubblico proprio in uno degli spaccati di vita reale che di solito si è più portati ad allontanare: la follia. E che pure emerge con prepotenza, perché «sotto le vostre diagnosi ci sono io, c’è la mia anima».

 

 

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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