Savon de Marseille #2. Noi, i nabos del Vieux Port, cantavamo in napoletano

“Marsiglia non è la Francia”. Uno dei primi ad accorgersene  fu il grande giornalista Albert Londres quando, nel 1927, sbarcato nella città della Focide, stupito nel trovare solo italiani, dal cameriere al lucida scarpe, dal barista al prete, pose la questione al sindaco.

Siméon Flaissières replicò con una battuta: “Ma io non amministro Marsiglia, bensì Napoli”.

Ebbene sì. Marsiglia è napoletana. E Michel Ficetola, con la collaborazione di Luc Antonini  e Patrick Fancello, lo racconta in un libro arricchito da ben trecento illustrazioni d’epoca: Marseille la napolitaine edizioni Massaliote.

Una città in cui la parlata italiana è entrata nell’argot dalla fine del diciottesimo secolo quando, su 100 mila residenti, seimila erano nostri connazionali. Cifra che lievita agli inizi del novecento quando si parla di “invasione italiana”, definizione xenofoba che dà il titolo a un libro di  Louis Bertrand. Una presenza destinata ad aumentare fino al 1934 quando, per scappare dalla fame e dal fascismo, Marsiglia conterà 128 mila nabos, (ci chiamavano con questo termine dispregiativo quando i migranti eravamo noi).

Ma la città parla napoletano. Sono i pescatori di Ponza a dare vita ai primi allevamenti di aragoste, sono gli scugnizzi dei vicoli dei Quartieri Spagnoli gli sciuscià del Vieux Port, sono le donne napoletane a vendere il pesce sulla banchina, sono i pescatori di Procida a vivere nella miseria di Saint Jean, la parte bassa del Panier, che i nazisti fecero saltare col tritolo.

Una storia, quella degli “Italiani di Marsiglia”, che ho raccontato nel mio romanzo Alcazar. Ultimo spettacolo (ed. E/O), di cui subisco fascino e ossessione. Mettere insieme pezzi di identità e  memoria in questo porto che incarna il melange mediterraneo di cui parlava Brodel, è un esercizio senza fine.

Ma l’italianità di Marsiglia è speciale perché va cercata. Inghiottita da un’integrazione esasperata forse dettata dalla vergogna di essere nabos.  E

in questo mosaico di piemontesi, calabresi, liguri, pugliesi ecco la napoletanità nelle fotografie d’epoca, nei  ricordi delle famiglie, nei ritratti in seppia. Un lavoro che, mi auguro, sia solo il primo  tassello per portare alla luce l’anima di questa metropoli meticcia.

Perché Marsiglia è una storia di migrazione e migranti, di esilio, dolore, felicità. Una felicità che da sempre abita nella sua luce, nell’azzurro del mare, nella condivisione. Perché , al di là dei tentativi di omologazione, Marsiglia è di chi ci vive.

Lo raccontano le belle immagini del libro di Ficetola che sono state esposte in una mostra al Musee des Docks Romain, purtroppo  mal organizzata e mal allestita. Un corpo estraneo all’interno di una struttura consacrata alle vestigia del mare. Un’occasione perduta in questa città dove sono stati investiti grandi capitali per i “contenitori” con scarsa preoccupazione per i contenuti. Ma si sa, i contenitori (le grandi opere pubbliche che certamente hanno il loro pregio) hanno portato soldi, i contenuti , che richiedono competenza e progetti, sono “inaffidabili”.

Per fortuna che in questo caso resta un libro e una storia da raccontare ai pronipoti dei nabos . Quelli che hanno i cognomi italiani, napoletani, e magari non sanno perché.

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Stefania Nardini è romana, giornalista e scrittrice, vive tra Marsiglia e l’Umbria. Per i tipi “Pironti” ha pubblicato “Matrioska”, una storia sulla condizione delle donne in Ucraina e “Gli scheletri di via Duomo”, noir ambientato nella Napoli anni ’70. Autrice di “Jean Claude Izzo, storia di un marsigliese” (ed. Perdisa Pop nel 2011 e riproposto da E/O nel 2015), biografia romanzata del grande autore francese, ha continuato a raccontare Marsiglia in “Alcazar. Ultimo spettacolo” noir- storico pubblicato da E/O nella collana Sabot Age.

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