Passeggiata museale milanese, pt. 2

Pinacoteca di Brera, Milano -

Le case di sogno della collettività tendono all’h24. Il modello è rappresentato dalle stazioni. Parzialmente, grandi supermercati e musei si adeguano lentamente a questa prospettiva.

L’alta velocità collega il lontano per lasciare isolato il vicino. Dunque, Napoli-Milano è come dire Napoli-Matera, con la differenza che, alle volte, la prima tratta costa meno della seconda. Senza dimenticare la questione della frequenza.

Così, al soldo delle passeggiate museali, ho continuato la mia collezione di proposte milanesi, favorita da un meteo davvero non neutrale nella pianificazione delle stesse: meglio muoversi al caldo immersi nell’arte che nell’umido e grigio palcoscenico urbano.

Da piazza Duca d’Aosta voglio raggiungere la Pinacoteca di Brera on foot. Mi faccio dare delle indicazioni. In 10 minuti passo dal pirellone al bosco verticale. Sono fuori strada. Mi convinco della necessità di usare la metropolitana – cosa ne sarebbe di Milano senza la metropolitana? E così raggiungo Montenapoleone con la gialla, poi la Pinacoteca con i piedi. Il breve percorso che le divide contestualizza l’atmosfera pacata, il diverso microclima che si respira intorno: un pezzettino di città a vocazione marcatamente pedonale. Insomma, c’è corrispondenza biunivoca tra museo e contesto urbano.

Al centro del chiostro campeggia il Napoleone di Canova, monumento pro-memoria: dobbiamo dire grazie allo stretega di Ajaccio per tutto quel poco di roba che di lì a poco andremo a visitare, in un intreccio  inscindibile tra arte e politica, tra arte e stato.

Quando arrivo, noto qualche piccola modifica nell’assetto entrata ed uscita. In pratica si entra dal bookshop. Si uscirà dal bookshop. Evviva il bookshop. Intanto, se non fosse stato per il bookshop! Per lasciare le mie cose nella cassetta di sicurezza – il cui funzionamento è lasciato all’intuizione – serve un euro. Lo capisco grazie all’intervento di un concittadino europeo. Dio benedica la comunicazione in una lingua extracomunitaria. Cambio l’euro necessaro proprio al bookshop ed intraprendo la marcia.

La visita a Brera è fondamentale, per chiunque. Offre un percorso nella storia dell’arte italiana che aiuta a prendere coscienza dei tanti mutamenti sociali, tecnici, culturali occorsi dal duecento in poi. Ci trovi dei punti cardine, dal gotico internazionale al futurismo, passando per fiorentini, veneziani e ferraresi. No, davvero. Si tratta di un’esperienza fortemente didattica. Non a caso, sta sopra l’accademia di belle arti di Milano, in un polo di rara efficacia dati gli intrecci culturali del complesso edilizio.

Quanto il museo faccia parte della cultura della popolazione, questo emerge dalla visita. Cioè, l’esperienza museale non è qualcosa di distaccato dalla vita quotidiana, ma un elemento in grado di innervarla. Non c’è quel grado di separazione che si accusa nell’esperienza meridionale di questi poli culturali, liquidata con un “andare al museo” che sa tanto di ammissione. Dunque, abbondano gli anziani che sfruttano il vantaggio di non pagare, le numerose scolaresche lasciate alla cura di una guida, le disparate presenze di un pubblico pagante diviso tra turisti stranieri e visitatori italiani.

Titoli di coda: ricordo a tutti l’iniziativa #kissmebrera, che permette a tutti di essere artisti per un giorno, di creare la nostra opera d’arte. Infatti, in occasione della festa di San Valentino la Pinacoteca di Brera propone una nuova iniziativa dedicata a Il Bacio di Hayez. Basta condividere su Instagram una foto o un mini-video di un bacio scambiato davanti all’opera usando l’hashtag di cui sopra. Proprio il 14 febbraio verrà svelata la sorpresa.

Concludo la visita non prima di aver fatto una rapida ricognizione in tutte le sale. Lo consiglio a tutti. All’ultima sala, ripercorretele tutte, senza passare dal via.

Riprendo le visite in serata.

E sì, perché il giovedì è il giorno consigliato per una full immersion nella Milano dell’arte. Infatti, l’orario di chiusura è posticipato dappertutto almeno alle 22, con iniziative dedicate ad incrementare il flusso dei visitatori, giocate tanto su un costo del biglietto inferiore quanto sulla chiamata ad un appuntamente collettivo.

Sono ospite da un amico che per motivi di studio si è trasferito a Milano. Penso che una visita al PAC, padiglione d’arte contemporanea (www.pacmilano.it) possa essere l’occasione giusta per incontrarsi. Alla fermata Palestro. Superiamo la GAM, la Galleria d’arte moderna, che ospita, oltre alla più grande collezione municipale dell’ottocento, le collezioni Vismara e Grassi. Al nostro ingresso al PAC siamo accolti da studentesse in assetto alternanza scuola – lavoro che ci chiedono se avessimo prenotato. Entriamo comunque: ingresso gratuito. Effettivamente, ci sono un sacco di persone. Ma non si può fruire delle opere. L’enorme padiglione è abitato da un cicaleccio irrefrenabile mentre i camerieri del catering distribuiscono tocchetti di grana e bicchieri di vino. E la storia sarebbe andata avanti, strenua, fino alle 22.

Andiamo via. Optiamo per Bellotto e Canaletto, Gallerie d’Italia, a cura di Bozena Anna Kowalczyk (http://www.gallerieditalia.com/it/milano/bellotto-e-canaletto-lo-stupore-e-la-luce/). Rispetto al palazzo Zavallos di Napoli, scopro un vero e proprio museo, con una proposta decisamente importante oltre alla temporanea.

Il percorso di zio e nipote è di quelli che mette d’accordo tutti. Infatti, non esiste alcuno al mondo che resti impassibile davanti alle loro opere: vuoi per Venezia, vuoi per la continuità tra la loro veduta e la fotografia, di cui rappresentano un quasi precedente. La tradizione fiamminga del paesaggio trovarà a Venezia terra fertile, con la riscoperta dell’urbanitas dopo la decisiva parentesi rinascimentale.

La mostra è affolatissima. Riusciamo a farci spazio tra un gruppo e l’altro e godere della mai silenziosa visita. Una curatela ben congeniata a cavallo tra topologia e cronografia dei due autori: una visita che si fa percorso. Pochi i disegni, peccato. Scorre rapida, sebbene impieghiamo parecchio tempo nel tentativo di rintracciare i dettagli. Non si finisce mai.

La galleria offre tanto altro. Una collezione dedicata al 900 in una maxi sala dalle pareti bianche. Ci sono un sacco di persone che sembra di stare in un museo londinese. E invece siamo a Milano. Così, dialoghiamo un po’ delle tendenze di una arte che nelle sue avanguardie propone delle rotture su cui si sostiene l’attuale paradigma contemporaneo. Poi altre sale dedicate a Boccioni, a Canova. Prima di terminare il percorso nella Milano di fine ‘800, delle vedute della città, del suo duomo protagonista.

Al bookshop è esposto il telegramma di Giuseppe Verdi che ringrazia Toscanini della direzione del suo Falstaff: un gesto teso a chiudere le polemiche sulla direzione dell’opera da parte dell’allora giovane direttore che avrebbe poi fatto la storia della musica in concomitanza con la rivoluzione della fonofissazione. In contemporanea, nel Teatro della Scala stanno dando la prima di Falstaff affidato alla regia di Michieletto. Insomma, tutto si tiene.

La storia del museo aperto fino alle 22 si ripete anche il sabato. Il punto di arrivo sarà la settimana piena.

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Antonio Mastrogiacomo vive e lavora tra Napoli e Reggio Calabria. Ha insegnato materie di indirizzo storico musicologico presso il Dipartimento di Nuovi Linguaggi e Tecnologie Musicali del Conservatorio Nicola Sala di Benevento e del Conservatorio Tito Schipa di Lecce. Ha pubblicato “Suonerie” (CD, 2017), “Glicine” (DVD, 2018) per Setola di Maiale. Giornalista pubblicista, dal 2017 è direttore della rivista scientifica (Area 11 - Anvur) «d.a.t. [divulgazioneaudiotestuale]»; ha curato Utopia dell’ascolto. Intorno alla musica di Walter Branchi (il Sileno, 2020), insieme a Daniela Tortora Componere Meridiano. A confronto con l'esperienza di Enrico Renna (il Sileno, 2023) ed è autore di Cantami o Curva (Armando Editore, 2021). È titolare della cattedra di Pedagogia e Didattica dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria.

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