La Nora che non ci si aspetta. Una casa di Bambola

Esistono spettacoli che trascendono se stessi. Non si limitano a essere classici, ma si trasformano in simboli. Casa di Bambola di Heinrik Ibsen è indubbiamente uno di questi. Da spettacolo teatrale si è trasformato in manifesto di emancipazione femminile, bandiera del femminismo ante litteram. Nora Helmer è così quasi irrimediabilmente identificata come paladina di tutte le donne che intendono liberarsi dalla gabbia in cui le consuetudini della società le destinavano. Cosa accade quindi quando si decide di osservare questo spettacolo da un ottica che semplicisticamente si potrebbe considerare maschile? La risposta è la messa in scena del Teatro Franco Parenti di Una casa di Bambola.
Si è detto semplicisticamente perché, in realtà, ciò che muove la regia di Andrèe Ruth Shammah è un’intenzione di aderenza al testo, mutato solo laddove è reso inevitabile da una scelta originale riguardo agli interpreti. Tutti i ruoli – parlanti – maschili, sono infatti affidati ad un unico attore: Filippo Timi. In lui si condensano il marito, Torvald Helmer, l’amico malato: il dottor Rank, e il procuratore Krogstad, lo strozzino in cerca di vendetta. Tre sguardi sulla vicenda, tre archetipi di maschile che non casualmente coesistono senza mai potersi incontrare. L’uomo di successo, Torvald, il fallito, Krongstad, quello che non ha nulla da attendersi dalla vita, Rank. Tre personaggi negativi, apparentemente.
Non è però così semplice. Per rendersene conto è necessario spostare lo sguardo sulla vera protagonista: la bambola, la lodoletta, la piccola e apparentemente fragile donnina di casa, Nora. E fin dal primo momento le suggestioni instillano una riflessione. La Nora di Marina Rocco entra in scena attraversando un velo, che non nasconde ma condiziona lo sguardo. Un diaframma dietro il quale finisce la verità e comincia il gioco, la recita, la casa delle bambole.  Quella dentro cui la donna compiace il proprio marito, gli si rende piacevole, amorevole, gli nasconde qualsiasi cattiva notizia. Ma è un immagine a uso e consumo di chi osserva, e le evocazioni sono accorte. Gli attori protagonisti, ad esempio, recitano spesso a pubblico. Non un ammicco, ma, forse, un suggerimento, un sintomo. Solo al di fuori del velo si svolge la concretezza della vita, con le sue tragedie e solitudini.
Col procedere della vicenda, senza mutare una parola del copione originale, diventa evidente come quello di Nora sia un atteggiamento consapevole, deliberato. È lei ad aver “costruito” l’ ambiente dai toni rosa pastello che risuona d’arie d’opera canticchiate con leggerezza. Capace di fare di sé una bambola agli occhi di Torvald, è nelle sue assenze che emerge una velatamente perfida arrampicatrice sociale nel suo compiacersi del potere del marito, una donna decisa, che rivendica le proprie azioni compiute alle spalle di tutti gli uomini cui avrebbe dovuto render conto, senza scrupoli di sorta. Si tratta di una donna per molti versi subdola, benchè agisca per amore. Lucida, solo in rare occasioni si fa intravedere travolta da avvenimenti che improvvisamente non è più in grado di controllare.

A rendere possibile tutto questo è una straordinaria Marina Rocco che, lungi dal limitarsi a essere la bambola, sa mostrare tutte le sfaccettature del carattere composito Nora: le sue fragilità e le sue furbizie, che rendono la rivendicazione di pretesa libertà del celeberrimo finale molto meno  necessaria – quando non meno credibile – di quanto si sia abituati a interpretarla. Ma per molti versi anche meno inaspettata. Accanto a lei – più che il contrario – c’è un Filippo Timi sorprendente. L’attore umbro si fa carico infatti di una mole di lavoro enorme e composita. I tre personaggi sono però sempre più chiaramente delineati col procedere delle repliche e gli permettono un nuovo modo di sperimentarsi. L’istrionismo che lo caratterizza è infatti sempre posto al servizio del testo. Mai debordante e mai gratuito, riesce a far ridere e ad affascinare come gli è consueto, senza tuttavia piegare Ibsen al proprio metodo attoriale. È però lontano dal venirne ingabbiato o limitato. Per quanto sia senza dubbio una sfida al gusto di alcuni fra i suoi più appassionati sostenitori, l’esperimento gli fornisce l’occasione di mostrare un’altra faccia della poliedricità del suo talento, e il risultato è una scommessa vinta, qualora si necessitasse di ulteriori prove.
Un ottimo risultato complessivo impreziosito anche da interessanti partecipazioni. È il caso di Mariella Valentini, severa signora Linde non priva di colpi di scena, ma soprattutto di un esilarante Andrea Soffiantini nei panni per lui consueti della governante en travesti con le sue misteriose massime a mezza bocca, e la piccola Angelica Gavinelli, che offre un saggio di maestria anche musicale da fare invidia a colleghi adulti; mentre Paola Senatore e Marco di Bella, maschere mute che strizzano l’occhio al teatro antico, tratteggiano una sotto trama di amore reale che rovescia quello costruito dai protagonisti
Una delle molte letture possibili – e la piccola ma sensibile variazione del titolo sta a rivendicarlo –  che tuttavia dimostra, accanto al valore dei suoi interpreti, la vitalità di un testo in cui le molte rifrazioni possibili del vivere si toccano con mano.

 

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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