Donne il 9 marzo. Per esempio Tracey Emin

I KNOW I KNOW I KNOW, Tracey Emin, 2002

Dato che ieri tutti o quasi le avete festeggiate io oggi voglio parlarne.

Ho sempre pensato che si discute tanto di femminicidio, di maltrattamenti, di non riconoscimenti e di sottomissioni, ma dovremmo essere noi donne per prime a dare il buon esempio agli uomini su questi argomenti. Dovremmo far vedere loro cosa vuol dire l’alleanza tra donne, cosa vuol dire il sostegno, la condivisione, la comprensione, la non competizione se non quella giusta, quella che ci fa crescere. Dovremmo essere le prime a non chiamare una donna puttana, perché dire tombeur de femmes fa fico ma al femminile no e diventa donna di facili costumi. Dovremmo vedere, riconoscere, una donna in difficoltà ed aiutarla, starle vicino, farla ridere, sollevarla. Alla fine è proprio nel momento del bisogno che vedi avvicinarsi o allontanarsi la gente intorno a te e le donne, le amiche, non dovrebbero mai abbandonarti.

Agli uomini questo dobbiamo far vedere, perché se ci diamo una divisione di genere, allora dimostriamo loro che è vero, noi siamo diverse e speciali. Parliamo con i nostri figli ed instradiamoli ad una vera educazione sentimentale, spieghiamogli che il rispetto è l’inizio di un rapporto qualsiasi.

Quindi oggi, 9 marzo,  voglio scrivere di Tracey Emin irriverente esponente della Young British Art.

La vedo per la prima volta alla biennale di Venezia nel 2007, un padiglione intero era dedicato a lei. Donna artista, sacrilega, provocatoria, audace nel proporre opere che spesso hanno dato fastidio a chi le guardava. Giudicata anche banale, scontata, senza contenuti e in cerca solo di soldi. Mentre il suo mondo, il suo racconto, sono di una bambina che è cresciuta in mezzo al fango. A 13 anni le è stata tolta quella che per una donna è la cosa più importante, più che mai per una giovane adolescente; la libertà di scegliere, di decidere cosa fare con il proprio corpo e a chi concederlo anche solo per 5 minuti. Una violenza che non rimane mai solo fisica, ma che troverà dimora dentro la testa, come un tarlo, per tutta la vita.

Il sesso per Tracey Emin, da quel momento diventa qualcosa di esplicito, libero e violento, lo definisce una specie di esplorazione sessuale, che la farà sentire più forte e più potente.  Nel sobborgo londinese dove è cresciuta, a Margate, ha vissuto tutti i suoi tormenti, e le sue tragedie dallo stupro all’aborto alla non capacità di trovare un angolo di pace per se, neanche nei sentimenti. Decide di mettere tutta la sua rabbia, la sua storia, nell’arte nella sua arte.

“C’è violenza nel mio lavoro, soprattutto violenza contro le donne. Molti sono stati crudeli con me perché sono donna…”

My bed (1998), che lei ora definisce “a portrait of a young woman”, è il racconto della fine di una storia d’amore. L’immagine esplicita di una lacerazione, di un corpo sofferente che per giorni è stato lì, in una camera da letto, ad espiare o meglio a disintossicare la propria anima, da un odore da una pelle, da un uomo, una passione, un dolore. Un talamo sfatto, lenzuola sporche e stropicciate, preservativi usati, bottiglie di alcool, biancheria, mozziconi di sigarette, pillole anticoncezionali, polaroid, tutto come se una pattumiera fosse stata svuotata lì sopra quel letto. Ha bloccato un suo ricordo, un suo momento di vita, esponendolo poi al mondo intero, senza paura di scoprirsi, come se la sua opera rappresentasse una sorta di riscatto. Ci sono tutti i suoi fantasmi in quel letto, la vita ora per lei è andata avanti, ma quel momento vissuto è rimasto indelebile.

Tracey Emin affronta la sua ricerca artistica anche con leggerezza, forse per schermarsi dell’incontro dell’orrore subito o forse perché in maniera diretta i suoi neon, le sue scritte,  sono così semplici da metterci davanti ad un sentimento, che solo così può colpirti veramente. La Emin parla del suo lavoro come l’essenza del proprio percorso di provenienza,  quindi più come un’idea concettuale, anche se poi le sue opere non hanno sembianze concettuali, “la maggior influenza nella mia vita è la mia vita stessa”.

Infine, malgrado lo scandalo provocato con notevoli critiche ricevute, si è dimostrata una grande Donna ed Artista. Insegna alla Royal Accademy of Arts di Londra (è la seconda donna ad avere un incarico alla Royal Accademy dal 1768), segue e si impegna per cause come la prevenzione per gli abusi sull’infanzia, aiuta gli studenti in Uganda portando una biblioteca in zone dove i libri neanche arrivano, si fa promotrice per la lotta contro l’AIDS e la salvaguardia dell’ambiente.

Ecco, il 9 marzo è anche per lei, Tracey Emin.

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Serena Achilli, studiosa appassionata d'arte contemporanea, è curatrice indipendente e direttore artistico di Algoritmo Festival. Scrive per raccontare la propria contemporaneità cercando con cura pensieri e parole. Ha un Blog in cui c'è tutto questo e altro ancora.

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