Libri Come #8. Xeneide: casa mia è dove casa non c’è

Trasformare una storia antica in una storia di tutti i tempi; trasformare un nome singolo nel nome che ciascuno di noi dovrebbe avere come secondo nome: questo è quello che i geniali ideatori della mostra-installazione Xeneide hanno fatto.

Inserita a pieno titolo nell’VIIII edizione di Libri Come (16/19 marzo, presso Auditorium Parco della Musica) che, per quest’anno, porta il nome di Confini, essa ha uno spazio per sé all’interno di un altro spazio [1], e in esso la storia di Enea, l’Eneide, diventa la Xeneide, la storia dello ξενος, dello straniero che ciascuno di noi è rispetto all’altro.

La magnifica lingua che è il greco, tuttavia, intende la parola ξενος non tanto nel suo significato secondario, cioè straniero, ma nel suo originario: ospite. Lo straniero è, prima che tutto, un ospite. Arriva da lontano e, come tutte le narrazioni antiche ci testimoniano, ha con sé un bagaglio di storie e di dolori che lo rendono sacro. C’è un solo modo per onorare la sacralità dell’ospite straniero: ascoltarne la storia. Il secondo libro dell’Eneide si apre così, con Enea che, di fronte a chi lo ha accolto e che “tace insieme agli altri e nello stesso momento” (così la traduzione letterale del conticuere), si appresta a ripagare l’ospitalità di cui è stato oggetto con il racconto della sua storia, fatta di guerra, morte, fuga e viaggio verso un destino incerto. Enea è, nel momento del racconto, inerme e solo.

Conticuere omnes intentique ora tenebant,
inde toro pater Aeneas sic orsus ab alto
(Aeneis, Liber secundus, vv.1-2)

Chi sei?, da dove vieni?”, è la domanda a cui un qualunque profugo risponderebbe, se lo si ascoltasse come si è fatto con Enea. Ed ecco il testo in arabo (foto 1), a cominciare la fusione del profugo Enea con ogni altro profugo.

La stanza in cui entro è buia, con luci che lo squarciano per illuminare oggetti simbolici di cosa significhi essere profugo; al centro, un grande giaciglio che indica la primaria necessità, quella di posare i piedi sulla terra, di riposare. Tutto è silenzioso e gli oggetti presenti, in quel silenzio, parlano. Raccontano, se li si ascolta. Mi metto in ascolto: quanta paura, in quel mare! Il freddo, la notte, la tempesta, la morte. Ora sono qui, accolto come ospite da genti sconosciute. Posso riposare.

In un angolo buio alla sinistra dell’ingresso vi è un ripostiglio a cielo aperto: una scansia con attrezzi da lavoro vario e scatole: quel che resta della traversata, o quel che si è trovato. Cose, oggetti che non hanno senso, a meno che non gliene si voglia dare uno.

Il movimento che seguo nella stanza è antiorario: ho il giaciglio alla mia sinistra e la scansia alle spalle. Il mio sguardo è attratto da un chiarore lì, nell’angolo davanti a me. Un piccolo tavolo-altare votivo, un porte-enfant. Mi avvicino, e scopro che gli oggetti – quelli che sono sul tavolino e quelli intorno ad esso- sovrappongono al volto di Enea tutti i volti di chi è fuggito dalla guerra verso luoghi ignoti; di chi, come Enea,  sente il bisogno di ricordarsi chi era ripercorrendo con le parole quello che gli è capitato.

Il piccolo tavolo, stretto e basso, sembra un’ara in miniatura, e lo è:  sopra vi trovano posto fogli e pennini con inchiostro accanto a cui è posata una manciata di grano, a dire che la mano che nutre è anche la mano che lavora, è la mano che racconta e scrive. Per terra, nascosto, del filo rosso…..

……il filo rosso diventa un gomitolo, per aiutare chi si è perduto a trovare la strada. Sta lì per dire a tutti gli Enea: “racconta, racconta! Ci sarà sempre chi ti ascolterà”. E in una realtà potentemente intessuta di simboli, non fatichiamo a riconoscere in quel magico filo d’Arianna il fil rouge che allinea mito, epica e storia. Noi oggi non esisteremmo, se un profugus come Enea non avesse toccato le lavinia ora.  Il filo rosso è anche un filo narrativo: collega la trama dell’Eneide di ieri con la Xeneide di oggi, e sull’ara ve ne sono infatti due copie: latina e italiana.

Una piccola statuina è il simbolo vivo del binomio accoglienza-racconto. Una statuina votiva, dal sorriso accennato e in una posa composta e gentile, offre nutrimento al corpo e ristoro all’anima angosciata di chi non sa più dove sia. Mito e pratica dell’ospitalità: eccoli raccolti in quella mano rivolta verso lo straniero, verso l’ospite: non un pugno teso a cacciare e ad allontanare, ma una mano che invita a condividere.

È lei il nume tutelare dell’accoglienza, è lei che offre ascolto al narratore, è lei che sorride riconoscendo in sé la stesse caratteristiche dello straniero/ospite a cui ha aperto le porte della propria casa. L’abito è quello di un’ancella, ma per me lei è Pomona, la dea delle messi e della terra fertile, che dispensa a tutti i propri frutti, senza distinguere da dove vengano.

 

Ciò che non manca sono i libri: dietro l’ara, libri appoggiati a terra, a testimoniare che sono importanti quanto il cibo, quanto il giaciglio. Una vita da profugo è una vita degna, e il racconto ne costituisce, agli occhi soprattutto di chi l’ha subita, un riscatto.

Raccontando a chi lo ospita le sue vicissitudini, Enea può dar sfogo al dolore e trasformarlo in bellezza, in significato universale con cui rivestire la vita; raccontando, Enea ritrova se stesso, e leggendo Virgilio noi ritroviamo noi stessi e riconosciamo noi stessi in quei visi chiusi, in quelle mani serrate, in quegli occhi che hanno bisogno di orecchie, voce e calore.

Non sto addolcendo la questione: la considero nel suo significato simbolico. La narrazione sa trasformare un fatto in una storia (in greco istorein/Istorèin significa “raccontare”, “tessere una trama”), e la storia di un singolo ha in sé la storia di ciascuno.

 

Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam, fato profugus, Laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum saevae memorem Iunonis ob iram; 

multa quoque et bello passus, dum conderet urbem,
inferretque deos Latio, genus unde Latinum,
Albanique patres, atque altae moenia Romae.
Musa, mihi causas memora, quo numine laeso,
quidve dolens, regina deum tot volvere casus
insignem pietate virum, tot adire labores
impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?

(Eneide, Proemio, vv. 1-11)

Ci chiede e si chiede il poeta: perché un uomo tanto forte e giusto ha dovuto tanto sopportare (adire labores), perché è dovuto andar via (profugus) dalla sua terra, sballottato (iactatus) a lungo per terra e per mare (multum…et terris … et alto)? Quale fato, quale divinità gli hanno imposto questo?

È la domanda, eterna, che ci facciamo: perché tanto dolore nella vita?

Enea, nel racconto, ha un destino determinato dagli dei: deve fondare Roma. Da ospite si trasformerà in aggressore e quell’iniziale dolore non avrà riscatto nella sua vita: il poema si conclude con l’anima di Turno –il suo rivale che però rivale non voleva essere- che fugge angosciata tra le ombre.

Ma la storia di questo straniero ci lascia un’eredità a cui attingere: siamo tutti stranieri, e ascoltare il racconto di chi è fuggito dalla morte ci regala una vita più grande.

Lascio la stanza con lo strazio sulla pelle, e insieme, però, mi è rimasto attaccato un po’ di quel sorriso fatto di speranza.

 

Note

1. La mostra Xeneide, il dono dell’altro – Miti, poetiche e pratiche dell’Ospitalità, sarà disponibile fino al 17 aprile ed è organizzata con la partecipazione di Baobab Experience e Piccoli Maestri. Si trova nello spazio “Stalker e No Working” dell’AuditoriumArte

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Giulietta Stirati, docente di materie letterarie e latino in un Liceo romano. Appassionata da sempre alla lettura, ha fatto di questa attività, declinata nelle sue funzioni più ampie e profonde, il senso del proprio mestiere. Insegnare è insegnare a leggere il mondo, sé stessi, gli altri. Attraverso la trasmissione del sapere si educa a leggere, a scegliere che vita si vuole.

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