Leonardo a Donnaregina, Napoli

Il Cristo benedicente - Leonardo
Il Cristo Benedicente – Leonardo

L’inizio del nuovo anno ha portato in dote alla città di Napoli Leonardo a Donnaregina una temporanea visitabile dal 12 gennaio al 30 marzo presso il Museo Diocesano in un’ arteria che si dipana da una via Duomo eletta via dei musei. La reclame pubblicitaria ha invaso quasi tutti i quartieri cittadini, arrivando anche in periferia. E non poteva non essere che con Leonardo che la tattica di riproduzione dell’immagine del suo Salvator mundi divenisse pubblicità da offrire nella sua asfissiante ripetizione. Sia chiaro, è così dappertutto, ma da quando il capoluogo partenopeo ha riscoperto i benefici della sua turisticizzazione, anche i musei fanno sentire la propria voce, molto più decisa che in passato. Così tutti sanno, tutti sono informati. E scatta il germe della curiosità ad invadere i programmi.

Lo spazio è gestito da scabec, sigla che sta per società campana beni culturali. L’iniziativa in questione vede tra gli enti patrocinatori e prestatari in primo luogo il MiBACT, oltre al comune di Napoli, alla città metropolitana e alla Federico II (nel complesso troviamo infatti la scuola di specializzazione in beni architettonici e del paesaggio dell’ateneo partenopeo). Leonardo a Donnaregina è promosso dall’arcidiocesi di Napoli, dal museo diocesano, dalla fondazione donnaregina per le arti contemporanee, secondo un progetto realizzato con i fondi POC (Piano Operativo Complementare) della regione Campania. Proprio per questo motivo non è prevista alcuna riduzione, proprio per nessuno, sia questi minorenne o uno studente. La visita costa 6 euro, documentati da uno scontrino che vale anche come biglietto.

Al nostro ingresso, siamo accolti da un concerto dell’orchestra napoletana previsto per la mattinata: è una moda importante quella che riporta la musica in chiesa. La laica canzone napoletana, eseguita da cantanti lirici giammai stanchi di ripeterla interpretandola, trova spazio nella scenografica chiesa barocca di Donnaregina Nuova. Il pubblico è scarso, siede nelle prime file, per lo più partecipa filmando e battendo le mani. L’ensamble di archi supera per pressione sonora la voce dei due interpreti che si muovono però con la giusta esperienza. Dopo la consueta era de maggio, iniziamo la nostra passeggiata per le vie di una chiesa diventata percorso.

Nessun guardaroba. Peccato. Di solito c’è nei musei.

Così, sollevati dalla musica, percorriamo le prime sale. C’è un po’ di tutto, dalla statuaria alla pittura manierista. Non potendo in nessuno modo utilizzare le pareti, le guide per immagini sono state realizzate mediante supporti di bella presenza scenica ma dalla scarsa tendenza didattica: riportano infatti esclusivamente la titolazione delle opere ricollocate nel contesto spaziale. Problema è che non puoi girare per la stanza, ma devi rimanere lì a ricevere le informazioni. Forse, dei fogli alla vecchia maniera avrebbero risolto in modo diverso la faccenda. Purtroppo, la didattica museale è lasciata molto al caso. Insomma, non c’è molta attenzione nel guidare il visitatore, cui vengono di contro offerti dei servizi igienici molto puliti.

Camminiamo al centro di pareti che ospitano, tra gli altri, Aniello Falcone e Francesco Solimena. Raggiungiamo poi la sagrestia, diventata lo spogliatoio dell’ensamble d’archi di cui sopra. Nella custodia di un violinista, c’è un segnalibro di quelli di Feltrinelli con le citazioni di uomini celebri. “Se puoi sognarlo, puoi farlo” di Walt Disney sembra dare corpo alle pretese di chi ha visto nel bene culturale il paradiso pacificato. Così, attraversiamo gli odori chimici delle toielette per spostarci verso il complesso di Santa Maria Donnaregina Vecchia.

Maria d’Ungheria, moglie diCarlo II d’Angiò e madre del francescano Ludovico e di Roberto futuro re di Napoli, provvide già dal 1307 alla ricostruzione della chiesa, devastata da un sisma, in stile gotico. Completati i lavori nel 1316 dispose che il suo sepolcro, realizzato dallo scultore senese Tino di Camaino, fosse posto in questa chiesa. Testimonia dell’ultimo tempo dello scultore, trascorso a Napoli  (dal 1323-24) al servizio di Roberto d’Angiò: si svolge all’insegna di una raffinata idealizzazione formale adatto ad esprimere il clima culturale rarefatto della corte meridionale. Il monumento, infatti, manifesta una bellezza trasognata ed evasiva, con le quattro Virtù alate che sorreggono il sarcofago coi ritratti dei principi angioini.

Di fronte c’è la tomba di Francesco Loffredo, un tempo completamente affrescata, oggi dimora solo di quel che resta, e qualche ragnatela. Siamo davvero fortunati ché il sole che filtra nei lastroni pervade la chiesa, dandole unità. Rispetto al nuovo complesso post tridentino, questa struttura risulta davvero spirituale ed intima:  il clima si confa ad un cristianesimo tardomedioevale, così diverso da quello sfarzoso della chiesa che aveva da venire.

Per raggiungere il coro della chiesa, saliamo le scale passando per il piccolo chiostro. I percorsi sono stati pensati nella loro più completo accessibilità, eccezion fatta per questo piano. Gli spazi ospitano anche il biennio specialistico di beni architettonici e paesaggistici. Chissà se gratuitamente. Delle panchine chiudono il percorso museale dagli spazi scolastici, in un destabilizzante stato di abbandono documentato da schermi a tubo catodico, case ingombranti per i pc e una texture di polvere sulla scrivania. Il coro invece è diventato la sala congressi, ottima per organizzare talk e convegni. Le pareti tutte intorno affrescate con scene tratte dal vecchio e nuovo testamento corredano di una decisiva scenografia la sala, mentre la catena elettroacustica è un omaggio ad una tecnologia vintage che si mantiene ancora valida nell’esercizio della sua funzione.

Ripercorriamo il percorso a ritroso, aspettando che una lunga fila di turisti non napoletani sfili per la stretta entrata laterale della chiesa gotica per tornare alla chiesa barocca. I tabagisti sfruttano l’area di passaggio per dare corpo ai loro desideri nicotinici. Ci aspetta ora infatti la galleria, sita al secondo piano. Ci accolgono due codici, il codice Corazza (della biblioteca nazionale di Napoli) e il codice federiciano (custodito  Napoli presso la biblioteca diArea umanistica dellafederico II) e una pannnelistica in italiano che sarà il cuore dell’attenzione rivolta all’opera leonardesca. Infatti, il bilinguismo è valido solo per la collezione permanente della galleria e caratterizza una catechesi storico culturale del cristianesimo, non la didattica artistico-museale. Prendo appunti da questa coppia che velocemente supera i corridoi ignorando le pareti che ospitano tutti i beni culturali così sapientemente disposti, tra lavori di un Luca Giordano onnipresente in città e reliquiari che farebbero invidia a Ciappelletto.

Arriviamo così al coro che ospita il Salvator mundi leonardesco. Eccoli, lì, a guadagnarsi la scena con la sua posizione ovviamente centrale. Ai lati da un lato quello attribuito a Girolamo Alibrandi, di proprietà del fondo edifici di culto ed in custodia presso il complesso di San domenico maggiore (per la prima volta presentato al pubblico napoletano con una proposta di attribuzione al pittore messinese), dall’altro il Cristo fanciullo come Salvator mundi di Gian Giacomo Caprotti detto Salaì, un allievo del suo atelier.

Così, per la prima volta in esposizione in Italia, ecco il Cristo Benedicente, dell’ex collezione del Marchese de Ganay. I visitatori giocano con le dita a coprire parte del volto del Cristo raffigurato, così da scoprirne l’androginia. E secondo una modalità specchiante, questo gesto viene tramandato piano piano a chi è arrivato in coda. Solo alcuni turisti stranieri restano un po’ stravolti dall’assenza di indicazioni in lingua che permetta loro di essere un po’ più guidati nell’accostarsi all’opera. Il figlio non se ne preoccupa più di tanto e scatta fotografie a ripetizione.

Questa scelta diocesana di proporre di un pezzo così importante della collezione leonardesca è da inserire nel solco tracciato dall’anno giubilare appena concluso sotto l’egida di Papa Francesco. In entrambi i casi, il motore di tutto è stata la pubblicità.

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Antonio Mastrogiacomo vive e lavora tra Napoli e Reggio Calabria. Ha insegnato materie di indirizzo storico musicologico presso il Dipartimento di Nuovi Linguaggi e Tecnologie Musicali del Conservatorio Nicola Sala di Benevento e del Conservatorio Tito Schipa di Lecce. Ha pubblicato “Suonerie” (CD, 2017), “Glicine” (DVD, 2018) per Setola di Maiale. Giornalista pubblicista, dal 2017 è direttore della rivista scientifica (Area 11 - Anvur) «d.a.t. [divulgazioneaudiotestuale]»; ha curato Utopia dell’ascolto. Intorno alla musica di Walter Branchi (il Sileno, 2020), insieme a Daniela Tortora Componere Meridiano. A confronto con l'esperienza di Enrico Renna (il Sileno, 2023) ed è autore di Cantami o Curva (Armando Editore, 2021). È titolare della cattedra di Pedagogia e Didattica dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria.

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