Il non gruppo. Intervista a Mirella Bentivoglio

Mirella Bentivoglio, Il cuore della consumatrice ubbidiente, 1975

Pubblichiamo una bella intervista, inedita, del 1 dicembre 2004 fatta a Roma dall’autrice a Mirella Bentivoglio che aveva in corso una mostra da lei curata e titolata Il non gruppo-Testi-immagine a Roma negli anni Sessanta.

Nata a Klagenfurt il 28 marzo 1922, Mirella è morta a Roma il 23 marzo 2017 a 95 anni, dopo un attivismo e una produzione sperimentale nel campo della poesia concreta, visiva e della poesia-oggetto, con una curatela importante in quest’ambito, nel 1978, della mostra Materializzazione del linguaggio alla Biennale Arte di Venezia.

Un piatto di Jean Cocteau, appeso alla parete dell’ingresso attira la mia attenzione, come nel 1990 quando – studentessa universitaria – andai a trovare Mirella Bentivoglio che sarebbe diventata un capitolo della mia tesi di laurea. Non è certo l’unico oggetto interessante che lo sguardo cattura a casa dell’artista. Cocteau è artista emblematico per la sua creatività inesauribile, per la poliedricità, il gusto per l’ironia, la cultura raffinata. Anche Bentivoglio ha in sé questi elementi: non è certo una novità. E’ un concentrato di energia con i suoi splendidi anni portati con disinvoltura. La mostra il non gruppo di cui è  curatrice – alla Galleria Miralli – Palazzo Chigi di Viterbo (dicembre 2004 – gennaio 2005), che proviene dalla Biblioteca Angelica di Roma è il pretesto per fare quattro chiacchiere. L’esposizione a cui partecipa anche in qualità di artista con l’opera emblematica Monumento (1966), realizzata con Annalisa Alloatti, nasce dall’esigenza di fare un censimento laddove storiograficamente c’era un vuoto. “Mentre altre città e regioni sono state molto più attente nello storicizzare questi fenomeni, qui si è tutto un po’ perso. Anche perché Roma è notoriamente distratta!”, afferma Mirella Bentivoglio. La Roma degli anni Sessanta è quindi un grande contenitore in cui operano una serie di artisti – in mostra ne sono stati selezionati quindici – o meglio poeti che sentono nascere dentro di sé la necessità di esprimersi con un linguaggio di parole-immagini. La stessa Bentivoglio inizia a praticare la poesia concreta negli anni ’60, dopo aver letto un articolo su un quotidiano torinese che, appunto, ne parlava. “Per me è stata una rivelazione, come fare un buco e trovare il petrolio. Credo che tutte le mie prime opere, i primi testi-immagine, siano nati in modo ancora confuso in una sola notte. Evidentemente c’era questo bisogno, così tutto ad un tratto ho capito come avrei dovuto operare. Alla Biblioteca Angelica di Roma è stata da poco inaugurata una mostra il cui titolo è il non gruppo, che riunisce le opere di Balestrini, Baruchello, Balzarro, Bentivoglio, Carta, Bruno Conte, Diacono, Di Sarro, Drei, Fontana, Mussio, Pratella, Sandri, Villa e Vincenti. E’ una mostra che presenta quindici artisti che ho racimolato, diciamo, dai miei ricordi di quando cominciavo a fare queste sperimentazioni. Artisti, anzi quasi tutti poeti, che lavoravano a Roma, negli anni Sessanta, tra linguaggio e immagine. Ho escluso i pittori, molti dei quali si avvicinavano alla parola, ma quello è un discorso a sé. Invece questi erano poeti che cominciavano a sentire la necessità di includere l’immagine nella loro poesia, che era poesia lineare ossia in versi. Alcuni di loro sono stati influenzati dall’informale segnico, come Balzarro artista che è un po’ scomparso, ma che allora era un nome che richiamava attenzione: è stato un precorritore del libro d’artista. Lavorava con Pascali, e per conto proprio realizzava delle scritture esagitate, ossessive, che richiamavano molto le opere pittoriche di Novelli. Balestrini era un poeta, e lavorava con il computer. A un certo punto sentì il bisogno di ricorrere alla materia tagliando strisce di carta stampata, che incollava su supporti, una vicina all’altra. Frasi che non avevano un rapporto molto logico l’una con l’altra, ma appartenevano alla stessa atmosfera, allo stesso ambito di significati. Erano lettere di corpi diversi, quindi creavano come delle pulsazioni. Le carte, poi, ingiallendo, con il tempo hanno prodotto anche un certo cromatismo. Anche Baruchello ricorreva alla casualità e lavorava con le striscioline di carta. Ha pubblicato molti libri, in mostra ce ne n’è uno del 1966 (Mi viene in mente), edito da Schwarz che era anche il mio gallerista, presso di lui tenni la mia prima mostra nel 1971. Fece anche un libro che si intitola La quindicesima riga, in cui ha affiancato casualmente tutte le quindicesime righe di un’intera biblioteca, copiate con la macchina da scrivere.

Perché proprio “non gruppo”?

A Roma eravamo tutti un po’ figli di nessuno, mentre i fiorentini avevano istituito il gruppo della poesia visiva. Erano aperti, nelle mostre includevano tutti coloro che, anche a livello internazionale, sperimentavano nella linea verbovisiva. Quel gruppo aveva una sua poetica, delle caratteristiche abbastanza diverse da quelle del nostro non gruppo.Tra loro c’era Pignotti; stava a Roma, ma non l’ho inserito nell’attuale mostra perché faceva parte, appunto, del gruppo fiorentino insieme a Miccini, Perfetti, Ori, la Marcucci ed altri. Il nostro non era un gruppo codificato. Ne faceva parte Emilio Villa, un caso particolare. Era un grande stimolatore. I “Sacchi” di Burri sono nati da un suo suggerimento e anche gli strappi di Mimmo Rotella. Era un critico, ma i suoi scritti non seguono la consuetudine dei testi dei critici di professione. Erano, come dire, prose parallele, quasi poetiche, sempre con rimandi linguistici ed etimologici. L’aver studiato in seminario gli aveva consentito anche di apprendere molti linguaggi antichi; è stato uno straordinario traduttore. Anche lui era un poeta e si orientava verso l’inclusione dell’immagine all’interno della poesia, ricorrendo a mani altrui, perché non aveva la preparazione per un lavoro manuale. I suoi manoscritti, con quella mobilissima grafia, erano già opere di scrittura visuale di per sé. Villa era in contatto con Diacono e con Mussio; negli anni Sessanta vi erano qui le redazioni di Ex e di Marcatrè, riviste di punta. Ma c’era chi, come Giovanni Fontana che si occupa di poesia fonetica, risiedeva a Roma per gli studi universitari. E c’erano quelli che, come me, lavoravano per conto proprio. Non avevo contatti con gli altri. Scrivevo poesie. Alcune erano state l’oggetto di un libro, uscito nel ’43 nelle edizioni Scheiwiller, ma sentivo il bisogno di rivolgermi all’immagine. Probabilmente un’emersione dall’inconscio: l’archetipo linguistico è pittografico. Il ricorso all’immagine è stato una necessità di molti poeti d’avanguardia in tutto il mondo, in quella decade. I brasiliani hanno fondato la Poesia Concreta, negli anni ’50, e precedentemente erano stati anche loro poeti tout court, autori di versi. Villa e Novelli avevano trascorso un lungo periodo in Brasile in quegli anni; quindi, ha avuto luogo una sorta di stimolazione internazionale, e Roma era uno dei principali centri di questo scambio di influenze. Vari pittori americani avevano portato qui il New Dada e l’espressionismo astratto, come Twombly che aveva un grande palazzo in un paese del Lazio. C’era, insomma, nella nostra capitale molta effervescenza, eppure nessuno si mai preoccupato di fondare qui, per queste ricerche, un gruppo.

Parliamo delle matrici storiche…

Il Futurismo e il Bauhaus! Poi si è inserita l’influenza del New Dada e, per il gruppo fiorentino anche la Pop Art. Nel non gruppo romano troviamo una prevalente testualità. Il fuoco era il linguaggio.

In quel decennio ‘60-’70, pieno di fermento, come veniva vissuto il vostro lavoro?

Ci consideravano dei pazzi furiosi. Ricordo che le mie mostre erano sempre fonte di scandalo, di prese in giro. Mancava nel pubblico la cultura per capire questo tipo di opere, che bisognava leggere non solo guardare. Una tecnica che ha capito molto bene la pubblicità.

Oggi, invece?

I giovani capiscono quel nostro lavoro. C’è anche da considerare che ognuno di noi ha proseguito il proprio percorso artistico seguendo anche altre strade. Ad esempio io non ho continuato strettamente, sempre e solo su questo tipo di operatività.

Per cui il mio attuale lavoro, pur sempre di matrice linguistica, è diverso da quello degli anni Sessanta. Il libro di pietra è la mia particolarità, e l’uovo, che mi nasce dalla lettera O. Le mie opere più recenti sono visivamente più comunicative, allora invece vi era un legame stretto con il linguaggio articolato. La lettera alfabetica, per me, è fondamentale, in quanto è il punto di collegamento con l’archetipo pittografico.

Pian piano mi sono rivolta ai grandi simboli, trovando questo linguaggio planetario proprio attraverso la forma delle lettere alfabetiche.

C’è differenza nel rapporto con il linguaggio tra artiste-donne e artisti-uomini?

Mi sono dedicata molto al lavoro delle artiste-donne, soprattutto negli anni ’70, curando tra l’altro, nel 1978, l’unica grande mostra storica al femminile che si sia tenuta alla Biennale di Venezia. Era intitolata Materializzazione del linguaggio e raccoglieva ottanta operatrici di questo secolo. Questo lavoro è stato molto importante proprio per “capirmi”. Per capire la mia condizione femminile di artista legata alla scrittura. Il linguaggio è lo strumento del potere, della storia, della legge che ha emarginato la donna nel pubblico silenzio. Ma la donna vive il linguaggio come strumento di comunicazione al difuori dei meccanismi alienanti. Ha con il linguaggio un rapporto intimo, caldo, ed è lei a darlo al bambino. Ho trovato che le artiste sono particolarmente dotate in questo settore operativo, e non sufficientemente conosciute. Con la cura di circa trenta mostre al femminile in tutto il mondo (tra l’altro alla Biennale di San Paolo, alla Columbia University di New York, ecc.) ho condotto questo lavoro di promozione, e anche di analisi, di confronto. Il rapporto che l’uomo-artista ha con la scrittura è, invece, nel settore verbovisivo, decisamente polemico. L’uomo, nel linguaggio, colpisce il potere come per liberare la via della comunicazione.

Organizza ancora mostre al femminile?

Ormai mi sembra che la donna abbia tutte le porte aperte. Ha, forse, addirittura più occasioni degli uomini. Ci sono artisti molto introversi che hanno bisogno di essere aiutati più delle donne. Quindi ho un po’ accantonato il discorso al femminile. Preferisco per questo settore dedicarmi a ricerche storiche, per esempio proponendo il lavoro tra linguaggio e immagine delle Futuriste. Non mi riferisco solo a Benedetta, molto conosciuta, ma ad altre come Irma Valeria, Rosa Rosà, Emma Marpillero. Sono note le tavole parolibere di Marinetti, Govoni, Gangiullo, e non di queste artiste, forse più vicine alla nostra sensibilità. Tra l’altro una delle “parolibere” più interessanti era la cameriera di Marinetti, Marietta Angelini, donna intelligentissima e totalmente illetterata. E fanno parte della poetica futurista tra linguaggio e immagine le danzatrici, perché danzavano sulla recitazione di parole in libertà, e non su musica. Si tratta di danzatrici, scrittrici, poetesse e pittrici che hanno condotto le loro sperimentazioni proprio nell’ambito di quella che noi oggi chiamiamo poesia visiva.

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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