Orson Welles. Effetti collaterali di un genio del cinema

Orson Welles, 1945
Orson Welles, 1945

Genio lo fu per molti versi e maestro di un’arte filmica innovativa e versatile, Orson Welles: un direttore creativo lungimirante ed incostante, difficile da imbrigliare, forse ritenuto pericoloso a causa delle sue idee anticonformiste e poco ortodosse. Ma, come sentenziò schiettamente: “Il modo in cui faccio quello che faccio è assai più interessante di quello che sono”.

Era il 1983 e pose in crisi la sua biografa, Barbara Leaming, professoressa di teatro e film presso l’Hunter College, che tentava di arrangiare una canonica biografia. Armata di una conoscenza praticamente enciclopedica dell’attore, aveva organizzato un pranzo al ristorante Ma maison di Los Angeles, persuasa di indurlo a rispondere alle sue domande.
Penso che nessuna biografia sia più interessante di quella in cui il biografo è presente”, le suggerì Welles.
Da quel momento la Leaming interruppe l’andamento narrativo del suo libro, a favore di un portentoso dialogo, in cui iniziò descrivere sé stessa, in rapporto al grande autore.

Ma, a ben guardare, molto di lui continuò a celarsi tra leggenda e fruste realtà, mito, malignità ed altezze olimpiche: chi fu davvero Orson Welles?
Mi risovviene una frase ad effetto, ancora una volta pronunciata da Welles: “Anything is possible” (“Tutto è possibile”).

La complessità di quest’artista non è certo rispecchiata dalle immagini di repertorio dell’aged boy, ingrassato, che degusta un bicchiere di vino nello spot anni ottanta di una tv commerciale, ma di certo, la sua, fu una delle più tristi storie di successo e fallimento della storia del cinema hollywoodiano. Una parabola cui abbiamo assistito molte volte nel mondo del cinema e che, nel suo caso, appare ancora più rovinosa, se si pensa alle potenzialità inespresse della sua verve, confuse spesso con la megalomania.

Acerrimo nemico ed impietoso commentatore fu Charles Highman (nel saggio The films of Orson Welles), che ne annotò i lati meno nobili, assieme all’inclinazione allo sperpero. Fu un parere che suscitò il risentimento della Leaming, che lo definì un libro distruttivo.
Parere condiviso da Welles, che ne fu adirato al punto di delineare i tratti di un personaggio analogo, in un film incompiuto: la caricatura dell’altezzoso critico, che chiamò Higgam (in The Other Side Of the Wind). Quel ruolo fu impersonato dal regista Peter Bogdanovich, col quale Welles stava collaborando ad un testo intitolato This is Orson Welles (Questo è Orson Welles), che però fu cestinato prima d’essere dato alle stampe.

Sembra un gioco di specchi (come tutta la vita dell’artista) e ricorda un po’ la meravigliosa scena finale de La Signora di Shanghai, in cui, recitando assieme ad Everett Sloane e Rita Hayworth, inscena un conflitto a fuoco in un labirinto di specchi: “Uccidere me significa uccidere te stessa”, grida uno dei personaggi.
Un delirio, definito “psicotico” dal già citato Highman, che conduce lo spettatore in fondo ad un baratro ancora oggi inesplorato dell’arte filmica e della vita reale.
Anything is possible”, avrebbe ripetuto Orson Welles.
Ma forse troppo spregiudicato, innovativo, compreso nel suo ruolo, teso a provocare e far indignare.

In Italia era giunto alla fine degli anni cinquanta, tentando di risollevarsi dall’ostracismo della macchina cinema statunitense, portando qualche anno di belle epoque e di eccessi nella vita mondana romana. La mia famiglia raccontava di un uomo che amava il lusso, nella sua dimora ai Castelli, presso la capitale, immerso in cornici sfarzose e gossip mondani e nulla che ricordasse la sua formidabile ascesa.
Un anacronismo con la vecchia Europa: mentre Luigi Comencini, Alberto Lattuada, Luchino Visconti e Federico Fellini lavoravano a dei capolavori e Parigi era un fermento di avanguardie e di contestazioni, i clamori hollywoodiani di Frascati apparvero luci senza gloria. Un periodo in cui l’ingiustizia subita e l’albagia con cui reagì, offuscarono i suoi giorni, in un delirio narcisistico che gli allontanò i pochi amici che aveva conquistato. Una vita le cui tinte non erano mai state così fosche, sopratutto se paragonate alla nitidezza dei suoi albori.

Infatti basta volgere lo sguardo al passato e molti di voi ricorderanno quel sagace sceneggiato radiofonico, trasmesso la prima volta nel 1938 dalla CBS, nel corso di una trasmissione di riadattamento di classici della letteratura. Era intitolato La Guerra dei mondi in Italia ne ascoltammo una versione su Radio Rai molti anni più tardi.
Il dramma racconta di uno sbarco alieno attraverso le parole di uno speaker radiofonico. Riadattamento di un libro britannico di fantascienza, fu talmente realistico da indurre gli ascoltatori a considerarlo un vero reportage giornalistico: la gente si convinse che gli alieni fossero sbarcati davvero a Grover’s Mill, nel New Jersey e la reazione fu incontrollata, secondo le cronache del tempo.
L’éscamotage vincente di Welles, interprete, regista e produttore, fu rappresentato dall’idea di mandarlo in onda durante un programma di musica, interrompendo con diversi comunicati le trasmissioni. Ed il giorno dopo i giornali riportarono fatti agghiaccianti: suicidi e scene di terrore in strada, incidenti a catena, mentre si scappava dalla campagna verso la città e viceversa, per sfuggire ai marziani…

Questa versione fece subito il giro del mondo e sarebbe suggestivo potervi credere ancora, se la vicenda non fosse stata assai meno sensazionale ed il panico provocato assai più contenuto.
In realtà, in un periodo in cui il mezzo radiofonico iniziava a sottrarre consistenti utili di pubblicità alle testate giornalistiche in cartaceo, si era inteso iniziare una campagna diffamatoria. La rivista Life, infatti, non perdette l’occasione per accusare la radio di usare il mezzo in modo improprio e pericoloso.
Ma oggi penso che siano stati proprio quei titoli di giornale, che portarono Welles d’improvviso all’apice della fama, ad ispirarlo nella stesura del film Quarto Potere.

Infatti, sebbene avesse calcato le scene teatrali e fosse già autore apprezzato, era stato solo dopo l’esperienza radiofonica, iniziata a 22 anni (in The shadows knows!, un anno prima de La Guerra dei mondi), che la sua fama aveva varcato i confini degli StatesInvitato a Hollywood, iniziò subito a lavorare a diversi film, tra cui The citizien Kane” (uscito in Italia col titolo Quarto Potere), che lui interpretò, diresse ed in parte scrisse prima dei 26 anni.

Questo film del 1941, ispirato alla figura del magnate William Randolph Hearst, fu co-scritto assieme a Herman J Mankiewicz e permise a Welles di avvalersi dell’abilità di un fotografo del calibro di Gregg Toland, con il quale aprirono le porte al cinema moderno, rivoluzionando tecniche di ripresa e piani di sequenza. Ciononostante, per raggiungere il successo reale della pellicola, occorsero dieci anni, sopratutto a causa dello stesso Hearst che ebbe a riconoscersi nel film ed iniziò ad osteggiare la produzione.
A dispetto di tutto, questo lavoro indusse registi del calibro di Francois Truffaut a sostenere di “appartenere alla generazione che aveva deciso di fare il regista vedendo The citizien Kane di Welles”.

Ma la mecca del cinema, che dapprima lo aveva accolto a braccia aperte, lo tradì: i film precedenti a Quarto potere non videro mai la luce; in uno di questi, Welles avrebbe desiderato trasporre il romanzo di Conrad Heart of Darkness, ma non gli fu possibile (progetto in cui riuscì invece Francis Ford Coppola, molti anni dopo, con Apocalypse Now).

In seguito, per lui iniziò un periodo di disgrazia, in cui le disponibilità concesse dalle case cinematografiche furono revocate o ridotte drasticamente. Eppure Welles era un attore versatile, mirabile regista di molti film e lungometraggi, nonché di originali lavori teatrali e radiofonici: di certo non furono la mancanza di idee o di argomentazioni ad ostacolarne il lavoro.

A questo proposito è emblematica la frase che pronunciò nel ricevere lo speciale Academy Award alla carriera, nel 1970: “Sono come un albero di Natale, cui abbiano tagliato le radici”.

È pur vero che i suoi film necessitavano di budget esosissimi, che raramente lui rispettava, senza contare che poteva distrarsi dal lavoro, mollando tutto inaspettatamente. Questo (e molto altro) fece di lui un indesiderabile: i suoi progetti rimasero diverse volte inconclusi. Come un genio fuori controllo, divorato dalla sua stessa creatività, aveva la sensazione che il completamento di un’opera avesse la stessa finalità della morte e per questo sembrava rifuggirlo (“A neurotic fear of finishing his movies” ovvero “una paura nevrastenica di finire i suoi film”, secondo il crudele Higham).

Fu così che nel 1942, al tempo delle riprese del film The Magnificent Amberson, scappò a Rio, e più tardi in Europa, abbandonando Don Quixote, con centinaia di migliaia di dollari di perdita per la lavorazione incompiuta.
Eppure, anche se non avesse girato alcun altro film dopo Quarto Potere, sarebbe rimasto uno dei più grandi registi della storia del cinema, forse il più grande di tutti.

Persino Francis Scott Fitzgerald parlò di lui, dedicandogli un racconto, contenuto in The Pat Hobby stories (17 racconti pubblicati dalla rivista Esquire, nel 1941): “….Non mi stupirebbe se Orson Welles fosse la più grande minaccia piovuta a Hollywood da anni. Si becca 150000 dollari a film e non mi sorprenderebbe se vi costringesse a fare tutto daccapo, come avete fatto nel 1928 col sonoro”.

Orson Welles subì comunque tutti i gradi della condanna, non trovando rifugio né nel cinema italiano, né in quello francese o sovietico e continuò a sovvenzionarsi partecipando come attore in film di latri registi.
Ovviamente lui avrebbe avuto molto da dire in proposito, anche se bruciò tutte le occasioni per farlo, con la pungente ironia con cui si autopromuoveva, spaccone e dissacratore tanto da risultare antipatico.
Ma sapeva essere anche un genuino incantatore e raccontò alla Leaming aneddoti singolari sull’incontro con Marylin Monroe o con Charlie Chaplin, talmente sorprendenti da sembrare inventati, in bilico tra scherzo e fantasia, con quel pizzico di magia che lo affascinava da sempre.
Come quello in cui narrò della volta in cui era stato in procinto di tradire la moglie. Diceva di essere salito in una camera d’albergo con un’altra donna ma, una volta lì, aveva sentito dalla radio provenire la sua stessa voce nel dramma radiofonico The shadow knows: “Chissà il diavolo dove si nasconde nel cuore degli uomini?”….

Se l’inclinazione a non soggiacere ai dictat, la libertà di espressione e la scarsa considerazione per l’establishment, fecero di lui un escluso, la sua opera geniale continua ad essere sottostimata, mentre della sua generosità non si è mai parlato, tantomeno della dolcezza che dimostrava nei confronti dei piccoli animali.

Questo, e molto di più, fu Orson Welles, la cui lezione mi è cara, tanto che qualche volta mi sorprendo a pensare alla sua vita come ad un’abile regia, un complesso meccanismo per non essere dimenticato dalle generazioni a venire, per sopravvivere alla sua stessa fama.

Un mistero dell’ombra che sa.
O forse è l’inizio di un’altra sceneggiatura sul Maestro Welles?

Niente è impossibile… se c’è una pistola nella sala degli specchi…

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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