Louise e Renée. Storie di donne per raccontare la donna.

Louise e Renee

Il teatro è per definizione uno strumento corporeo, fatto di contatto e di plasticità. È quindi una sfida coraggiosa portare in scena, non solo un romanzo ottocentesco, ma una vicenda epistolare, dove il contatto tra le voci non  parrebbe sussistere né nello spazio né nel tempo. Un assunto smentito dalla drammaturgia di Stefano Massini che, per il Piccolo Teatro di Milano, ha rielaborato Memorie di due giovani spose, di Balzac.

Una forte amicizia, una sorellanza elettiva nata nell’infanzia tra le mura di un collegio, con l’ingresso delle due giovani Louise e Renèe – che danno il titolo alla pièce – nell’età adulta, è costretta a mutare forma in lettere, senza però mai perdersi.

Senza spezzare il filo delle confidenze le ragazze passano da un luogo chiuso ad un altro, dalle mura di un convento a quelle di una società che vuole irregimentate in ciò che una donna deve essere: moglie e madre. Le vesti bianche – curate da Gianluca Sbicca – e i corpetti che stringono i loro corpi le imprigionano in ciò che il senso si aspetta, una realtà nuova con cui fare i conti.

La resa scenica restituisce al legame tutta la sua corporeità, a tratti intensa e persino sensuale, facendo da contraltare alla distanza che lo scambio epistolare evoca. La vicinanza messa in scena non è però puramente affettiva. È Louise a dichiararlo, senza possibilità di fraintendimento: «Siamo la stessa persona con nomi diversi». Diventa così inequivocabile ed etimologicamente problematica la coesistenza di due donne, due vite e due voci per raccontarle le cui parole nascono nella bocca dell’una per terminare in quelle dell’altra.

La messinscena rivela così non solo tramite le interpreti il suo carattere squisitamente femminile nella descrizione della conciliazione forse impossibile dei due opposti, in cui la donna non solo ottocentesca è costretta a dibattersi.
Renèe diventa madre e sposa, ma in questo suo apparente consapevole piegarsi può cercare uno spazio di  serenità. Louise, all’opposto, sceglie la propria libertà, antepone se stessa alla società, ma così facendo si espone alla possibilità di una caduta senza reti di protezione.

Due parabole indipendenti che la drammaturgia di Massini trasforma in dialogo serrato, che non può che degenerare nello scontro.
Non solo tra le due anima, ma soprattutto con l’esterno, ed è questo punto che la regia di Sonia Bergamasco – alla sua prima regia di un testo che non la veda anche in veste di attrice – dimostra tutta la sua cura e il suo valore.
Se dopo l’ormai lontano tempo felice dell’infanzia tutto appare farsi più freddo e rigoroso, è inevitabile che entrambe le donne siano spinte verso un punto di rottura della gabbia e di esplosione delle proprie passioni. Pensato e coreografato con maestria, che è il passaggio migliore dell’intero spettacolo. Tutto ciò che accade dopo è la corsa di ciascuna verso il proprio destino, anche quando le parole appaiono rallentare. Sonia Bergamasco riesce con una cura non di molti a inserire l’elemento teatrale (tutt’altro che posticcio) su un testo nato per essere esclusivamente di parola. A sostenerla non solo le affascinanti parole dell’autore della Commedia umana, ma anche le evocative luci di Cesare Accetta, talora calde e talora livide, che disegnano uno spazio che – anziché subirlo – trae vantaggio dall’essere nudo. Fanno eccezione tre filtri, posti a ricordare quello che talora potremmo dimenticare: Tutto ciò che osserviamo non è istintivo, ma filtrato attraverso la riflessione e il tempo che intercorre tra le frasi vergate su carta.

A impersonare due figure tanto dense sono due attrici di sicuro talento, apparentemente lontane come i due caratteri che portano in scena: Federica Fracassi e Isabella Ragonese, come Louise e Renèe, istintiva l’una, composta l’altra. A unirle è un’intensità che si manifesta anche in una vocalità  in cui la lezione del “suono” di Sonia Bergamasco si fa sentire in modo molto deciso.

Un lavoro femminile in ogni possibile accezione, che riesce a conciliare un ulteriore opposto. Rivendica la sua natura ottocentesca nelle scelte lessicali e nelle atmosfere, ma non per questo si dimostra datato. Al contrario, ripropone un quesito al di fuori di ogni temporalità che – forse -proprio perché affrontato da punti di partenza ai due estremi opposti, non suggerisce e non lascia sul campo vincitrici, ma solo una realtà quotidiana per come è, sul cui sfondo si può ancora soltanto vagheggiare l’immagine dell’infanzia, un Eden perduto.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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