Prometeoedio. Ed Eschilo diventa punk

Prometeoedio in scena al Teatro Menotti.

Theatron, cioè spettacolo, deriva da theaomai, “vedere”, in greco. Ricordare che il teatro è un portato greco è quindi una ovvietà. Forse meno lo è che anche gran parte dei temi e dei topoi ricorrenti del pensiero occidentale lo sono. I miti fondando la storia occidentale come la conosciamo oggi, e tutto, o quasi è già stato raccontato dai tragediografi greci.

Se quindi, come fa il Teatro della Tosse, si intende riflettere sull’uomo e il potere, in particolare quello che non si può affrontare direttamente perché si trova nella sfera del divino, non si potrebbe fare meglio che riaprendo Eschilo, in particolare il mito di Prometeo. Un semidio, vittima dell’odio di Zeus per aver voluto sfidarlo offrendo agli umani il fuoco, e con esso la conoscenza. Per questo è stato incatenato nell’aldilà, sospeso tra l’odio degli dei e un mondo, quello umano, nel quale si riconosce ma da cui è stato inesorabilmente strappato.

È in questo limbo che, reinterpretando il Prometeo incatenato, si muove Prometeoedio in scena al Teatro Menotti. Quello portato in scena dalla compagnia genovese è un Prometeo egotistico, rabbioso contro un dio che fa sentire la propria potenza senza mai comparire, mentre intorno a lui si muovono le vittime. Come Io, trasformata in giovenca per essere stata amata da Zeus, ma anche gli dei stessi, servi per scelta di un potere che sovrasta anche loro, che lega anche loro, i cui moti di ribellione sono scenografici ed esplosivi, ma abortiti sul nascere.

Non così per Prometeo, colui che vede il futuro, consapevole che anche il più apparentemente granitico dei poteri è destinato a cadere, ad essere sovvertito dalla brama dei sottoposti, o addirittura dei propri frutti stessi, i figli. Prometeo accetta il proprio dolore, sapendo che sarà questo a liberarlo. É abbassandosi al rango di uomo che spezzerà le catene, dimostrando a dio che non ha più bisogno di lui, ma che è il dio a non potere esistere senza l’uomo.

Ciò che caratterizza la rilettura sono però le scene, firmate, come la regia, da Emanuele Conte; il regista ambienta l’Ade in una scenografia imponente e sanguigna, in cui – in un tentativo di aderenza spasmodica per quanto attualizzante del testo – la rupe venata di ferro viene sostituita da una scenografia imponente di moduli a più piani, composti da grate arrugginite al bordo del proscenio. Ad esse si trova incatenato per l’intera durata della pièce il bravo Gianmaria Martini, costretto a trasporre in micro-movimenti tutta l’espressività del personaggio. Lo svolgersi dell’azione avviene così per la quasi totalità dietro le sue spalle, nella gabbia nella quale soprattutto Ermes, un espressivo Enrico Carpanati, racchiude se stesso aderendo ai dictat di Zeus.

L’atmosfera che crea l’intera messa in scena è quella di un mondo punk e post apocalittico, i cui abitanti vestono abiti di plastica, modellati e fruscianti, come quello di Oceano, Pietro Fabbri. Un tentativo estremo di aderenza al testo, che trasforma anche il personaggio di Alessia Pellegrino, Io, in vero e proprio animale, pungolato dal tafano del proprio desiderio.

La scelta più riuscita è però quella più coraggiosa, e insieme aderente alla consuetudine del teatro greco medesimo. Così come sulle scene greche non erano ammesse donne, anche il coro delle Oceanine assume sembianze maschili, trasformandosi tuttavia dalla moltitudine a un singolo, cui spetta, come da testo, il compito di fare da tramite tra il pubblico e l’universo oltremondano rappresentato. Un interprete, Roberto Serpi, che sottolinea i lati più comici e parodici del personaggio e del testo, in una lettura originale eppure coerente.
Così come originale è l’intera rilettura, sicuramente affascinante agli occhi dell’osservatore, in tutta la sua imponenza.

Rimane tuttavia l’interrogativo di quanto un dispositivo così spettacolare sia stato necessario. Un lavoro tanto elaborato rischia infatti di soverchiare la forza delle parole, già capaci di una notevole forza intrinseca. È infatti un impianto quasi cinematografico, che monopolizza lo sguardo dello spettatore, scivolando nell’eccesso, facendo dei personaggi figure, anche troppo oltremondane per mantenere verità.  Al contrario è la forza delle parole a rendere la classicità antica al di fuori dal tempo, e a dimostrarlo è il testo stesso, nella vincente trasposizione linguistica che avvicina il testo alla comprensione del pubblico di oggi.
Era davvero necessario così tanto di più?

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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