Early Works and Rare Prints al Cembalo. Intervista a Paolo Ventura

Paolo Ventura - War Souvenir 09

Preparati alla visione di immagini costruite come reali che Paolo Ventura (Milano, 1968) concretizza attraverso i suoi noti teatri animati, la prima sezione della mostra Early Works and Rare Prints nella galleria Il Cembalo (dove ha già esposto nel 2015) sorprende, e non poco. Perché sono delle immagini reali, di oggetti reali, ripresi in momenti reali. Nulla è costruito, nulla è manipolato (forse un po’ teatralizzato) ma tutto è mostrato così com’è, tal quale. Tuttavia, le foto delle tre serie a colori, di medio formato, approntate nella prima sala [Buchi (1996-1998), Dissotterrati (1998) e Libri bruciati (1999)], dopo aver appreso gli aneddoti e le storie della loro genesi, si collocano senza sussulti nel solco della produzione artistica di Paolo Ventura. Perché la centralità della narrazione nonché la passione e fascinazione per la prima metà del Novecento, compreso il periodo bellico, distintamente si rintracciano anche in questi lavori.

Varcata la soglia, immediatamente lo sguardo si posa sugli scatti di libri con i bordi e le pagine consumati dalle fiamme. Scatti che sembrano fare un po’ il negativo dei Libri Prohibiti -quei libri inscritti dalla Chiesa Cattolica a partire dal 1559 nel primo Index Librorum Prohibitorum– che Ileana Florescu ha affondato nelle acque di diversi mari per rigenerarli e mondarli per far riflettere sulla censura. Anche nei Libri Bruciati c’è di mezzo la censura, quella di quattrocento anni dopo attuata dalla dittatura fascista. Pure quelli immortalati da Paolo Ventura sono dei libri sopravvissuti, dei libri salvati dalla razzia fascista che, tra le sue numerose deliranti spedizioni, aveva dato fuoco a una tipografia bolognese dove venivano stampati i volantini dell’Avanti, libri scampati e conservati in una valigia dal nipote del tipografo. Sono questi sopravvissuti che Paolo Ventura immortala uno a uno, ponendoli al centro di ogni scatto, come monumentali soggetti, a memento della Storia e della follia, e del dolore, che spesso l’accompagna. E sempre la Storia è il soggetto sottinteso degli altri scatti, quella Storia che ugualmente può essere narrata, e evocata, attraverso piccoli dettagli pregni di significato.

Così è per gli scatti Buchi di violenza che, come racconta lo stesso Ventura, “è il primo lavoro realizzato dopo aver lasciato il mondo della moda”. In queste immagini sono fissati appunto quei buchi, quelle tracce, quelle ferite, che colpi di fucile, pistola o bomba, hanno lasciato durante la guerra nelle città teatro degli scontri su muri, lampioni o sugli oggetti, quale un elmetto, una divisa militare, una cornice fotografica da tavolo. Dettagli di un racconto più vasto e più ampio i quali, seppur non si conoscono i principali protagonisti, narrano con forza una grande tragedia.  La stessa amorevole attenzione riposta nel fotografare i reperti della Grande Guerra della serie Dissotterrati, in un’archeologia della guerra la cui violenza si ricostruisce attraverso quegli elementi disseminati nelle immense distese della campagna toscana, ritratti nel momento stesso in cui venivano ritrovati. Foto che, nel loro insieme, senza indugiare sulla pornografia della violenza e senza artefici, raccontano con forza le tragedie della guerra e invitano a riflettere anche sulla sua inutilità, sulla sua portata di sofferenza, sul suo numero comunque gratuito di morti.

Nella seconda sala, sono esposti una ventina di lavori che raggruppano scatti affermati [War Souvenir (2005) e Winter Stories (2004-2009)], ma anche altri meno noti [composizioni di polaroid (2010)], di uguale forte impianto narrativo e emotivo. Attraverso la fusione di diverse discipline artistiche, realizza lavori che si avvicinano molto a quelle illustrazioni delle Gazzette, dei giornali di notizie del Novecento, dove quel tempo e quell’atmosfera sospesa, quei colori tenui e nebbiosi, quelle pose statuarie, rigide e teatrali, alcune con un pizzico di ironia, altre con spietata durezza, evocano un tempo che fu, e che, con una certa indulgenza, accompagnano lo spettatore in un mondo passato e lo spingono a riflettere sulla Storia ma anche, e soprattutto, sul ruolo dell’immagine e della fotografia.

Leggendo le notizie sulla tua biografia, ovunque è riportato che sei approdato alla fotografia tout court dopo aver lasciato quella di moda. Con quali riviste hai collaborato?

Quando vivevo a Milano e poi a Parigi, collaboravo con “Elle”, “Amica”, “Glamour”, “MarieClaire”.

Perché hai lasciato?

Non mi divertivo più. Per caso ho iniziato a realizzare i miei servizi di moda: un mio compagno, mentre ero studente in Accademia, mi ha segnalato ad un fotografo che aveva uno studio in un seminterrato. All’epoca, non pensavo che la fotografia fosse lavoro, però mi piacque come mezzo ma non mi interessava fare ciò che faceva il fotografo per cui lavoravo, molto classico. In questo seminterrato che era anche una sorta di magazzino, c’erano molte scarpe da donna e ho iniziato a fotografarle mentre ero in studio quando il fotografo era in ospedale. Il lavoro lo presentai a MarieClaire, che mi fece lavorare subito. Dopo circa 10 anni, mi è sorto il dubbio che quel lavoro non me lo ero scelto e ho quindi iniziato a fare cose che mi interessavano di più. Nonostante fosse un’esperienza molto bella, si era ormai esaurita. Decisi di cambiare e così andai negli Stati Unici, che reputavo il paese dell’arte dove era meglio fare l’artista e dove nessuno mi conosceva. E ho iniziato a fare le mie cose, quello che mi piaceva e mi interessava, a Brooklyn.

Nei tuoi lavori però non c’è solo fotografia, ma pittura, teatro, scenografia. Perché allora non dedicarsi a queste altre discipline e invece scegliere la fotografia?

Ho sempre pensato alla fotografia come il modo di esprimere le mie idee e di utilizzarla per quello che è: uno strumento capace di riprodurre, anche se con una logica più da pittore e illustratore, e testimoniare che quel luogo esisteva. Utilizzarla in un momento in cui la fotografia non è più la testimonianza della nostra epoca, di report. Tutti i fotografi hanno iniziato a lavorarci sopra per registrarci le loro idee ossessioni e fantasie. Tutto tranne la realtà. All’inizio, quando presentavo i miei lavori, alcuni restavano affascinati, altri non li accettavano perché non erano considerati fotografia, era difficile accettare che la fotografia non riproducesse la realtà. Adesso è un concetto assimilato, ma anni fa, non lo era. E io volevo far pensare che il luogo era reale costruendo mondi immaginari.

Una caratteristica dominante dei tuoi scatti è quella di essere senza tempo: perché?

Quando ricostruisci una realtà, automaticamente anche le coordinate temporali non ci sono più. Perché dargli un tempo e un periodo?

Cosa ti ha spinto a realizzare questi set, questi piccoli teatri animati? E perché non con persone vere, a parte quelle in cui ci sei tu e i tuoi familiari, tua moglie, tuo figlio, il tuo gemello? Perché questa scelta del passato?

Non lo so. È un non-tempo che mi permette di giocare, di non applicare nessuna regola politica di attualità, ma è come un tempo sospeso e parallelo.

Le storie che racconti nei tuoi lavori non sono legate all’attualità o a momenti definiti, questo vale per tutti i lavori? Perché alcuni hanno nomi e momenti precisi. Mi vengono infatti in mente Lo studio di A.S. o Il pittore A.S. viene trovato dalla portinaia impiccato nel suo studio, entrambi della serie War Souvenir: anche quelle storie sono di fantasia?

Sì e no. Perché sono racconti della nonna, dei familiari, che si fondono. Sono suggestioni di racconti e sono la loro libera interpretazione che è la base per ricostruire la storia. Ma non conta la veridicità, conta la narrazione.

Quando i soggetti sono persone reali, e non fantocci realizzati da te, i vestiti sono appositamente confezionati oppure trovati nei rigattieri? Quindi, ogni scatto, richiede molto tempo per la preparazione? Hai in mente prima o l’idea si forma mentre costruisci il set?

A volte le storie si presentano già da sole. Come ad esempio la serie The Man in the Suitcase: avevo comprato degli abiti da una signora che, anziché metterli nella solita busta, me li ha messi nella valigia. E questa era già una storia.

Nel 2009-2010 hai preso parte alla mostra Realtà manipolate: come le immagini ridefiniscono il mondo a La Strozzina di Firenze, nella quale hai esposto la serie Iraq, all’epoca unico lavoro coevo ai tempi contrariamente agli altri: come mai?

Anche questa serie è realizzata in studio, quando ancora vivevo a New York, e anche in questo caso ero appassionato e avvinto dall’idea di realizzare una finta guerra quando si svolgeva quella vera, con lo stesso stile dei cosiddetti embedded journalist, i giornalisti al seguito delle truppe.

Info mostra

  • Paolo Ventura – Early Works and Rare Prints
  • 11 febbraio – 29 aprile 2017
  • Galleria del Cembalo, Largo della Fontanella di Borghese, 19 – Roma
  • Orario: giovedì e venerdì: 16.00 – 19.00; sabato: 10.30 – 13.00 e 16.00 – 19.00 oppure su appuntamento
  • Info: t. 06 83796619
  • www.galleriadelcembalo.it

 

 

 

 

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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