Tempo di Libri #38. I poeti hanno fame di vivere. Lucia Mascino è Idea Vilariño

I poeti non si leggono (più). Il lavoro di Lucia Calamaro parte da un assunto di questo tipo. Come fare quindi per riportare alla memoria le loro parole in un mondo che perde curiosità? Riavvicinarli, persino, alla cultura nazional-popolare, restituirli alla vita da cui hanno tratto le loro parole? L’autrice sceglie una soluzione che si rivela suggestiva ed efficace: restituisce loro una voce che sembra provenire da quelli che Fernanda Pivano definirebbe «gli spazi profumati dell’eternità». Porta il teatro anche – e nonostante – gli spazi caotici di una fiera quale è Tempo di Libri, con l’intenzione di piantare il seme di quella che appare una novella Spoon River della poesia.

Quella che appare sulla scena, fasciata in un lungo abito nero e con una giacca posata sulle spalle, è Idea Vilariño, poetessa contemporanea, nata a Montevideo ottantanove anni prima della sua scomparsa, avvenuta nel 2008 e passata – esordisce amareggiata – sotto un ingiusto silenzio. Non così per i suoi amici, come Mario Benedetti, acclamati – cosi per lei – come classici della letteratura ispano-americana, ma venerati come tali.

Solo ora la donna può dar voce alla propria insoddisfazione di sé, ripercorrendo la propria vita, le opere, gli amori intensi e sfortunati, ed in particolare quello – durato la vita intera – per Juan Carlos Onetti, che la consumava mentre lui viveva l’intera esistenza accanto (anche) a innumerevoli altre donne. Racconta ogni cosa di sé, persino gli spostamenti. Affamata di dirsi come lo era stata in vita di far sapere ogni cosa di sé, di rendere pubblico «tutto il di me pubblicabile», dalle poesie agli appunti, in una divorante «mania di sé», mossa dal desiderio spasmodico di lasciare una traccia. Per la quale però non ha mai voluto accettare riconoscimenti, offerti invariabilmente da «giurie di incapaci». Il primo dei suoi paradossi.

La risposta al secondo, ovverosia perché, malgrado l’amarezza che la contraddistingue, non si sia uccisa, lo forniscono le sue parole, colme anche di passione. Soprattutto della speranza che una realtà diversa sia possibile, manifestata attraverso la militanza comunista. Una convinzione dolorosamente minata dalla morte di Che Guevara, eppure tanto forte da poter considerare quell’assassinio mai avvenuto, quasi come se solo così a lei fosse concesso di andare avanti, di restare, persino dopo la morte.

A dare corpo e volto alla Vilariño e alla sua «disperata vitalità» è una intensissima Lucia Mascino, capace di avvolgere e creare intorno a sé una bolla emozionale fuori dalla quale scompare un contesto che avrebbe potuto rivelarsi molto ostico per attori meno padroni dei propri mezzi. La Mascino invece riesce a affascinare, non limitandosi a interpretare la poetessa uruguagia, ma restituendole vita con piena naturalezza, tra la biografia rivissuta e le opere declamante occhieggiando a Carmelo Bene, in un saggio di talento e versatilità.

Queste due donne in una, od una per due, si aggrappano allo sguardo del pubblico per chiedere e insieme rivendicare esistenza, in un contatto visivo costante che trascina l’osservatore in un altrove – possibile solo al teatro – dove il tempo si cancella e sfuma il confine tra esistenza e letteratura.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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