Tempo di Libri #42. Il Piccolo Teatro e la città nello sguardo di chi li vive da sempre

Parlando di teatro ci si sofferma su testi, drammaturgie, allestimenti, riusciti e meno fortunati. Si offre spazio alla riflessione critica, all’analisi esegetica e a quella tecnica. Ma raramente ci si preoccupa di quale vero riverbero esso abbia sul pubblico, sulle persone che per molte sere all’anno oppure solo sporadicamente escono di casa, acquistano un biglietto e trascorrono le loro ore ad osservare altri su di un palcoscenico. Non ci si chiede quali sono le loro storie, che cosa li ha spinti. Qualche volta, semmai, che cosa si aspettano, quando si tratta di cercare di compiacerli.

Si perdono però così di vista spaccati di realtà che possono essere fecondi. Se ne è accorto Mauro Pescio, voce radiofonica Rai, il cui lavoro consiste nel raccogliere storie. Attraverso un post sui social, è incappato in quella di Lidia Cova, una arzilla signora milanese come molte altre, ma con una caratteristica unica: una poltrona di abbonata al Piccolo Teatro di Milano dal 1947, l’anno della sua fondazione.
Una storia solo apparentemente piccola, quella della signora Lidia, che però ha suscitato l’interesse sia di Radio 3 – che la manderà sulle sue frequenze a maggio in forma di audio-documentario – ma anche di Chiara Valerio, una delle menti che hanno dato forma a Tempo di Libri, e che ha voluto che la manifestazione prevedesse uno spazio anche per la sua vita di viscerale amante del teatro.

Una storia che inizia, per quanto riguarda il suo legame con il Piccolo, nella Milano ferita dell’immediato dopoguerra, che offriva ancora trentamila pasti nelle mense comuni a chi aveva perso tutto. Il cui tessuto industriale era formato da aziende i cui stipendiati erano tutti figli di invalidi di guerra od orfani, spesso giovanissimi. É in questa azienda che si trova a lavorare la giovane Lidia, fresca di maturità, mentre si divide tra lavoro e università, cercando di sostenere i sacrifici economici di due genitori illuminati e – lo rivendica con orgoglio – antifascisti, perchè altrimenti oggi racconterebbe una storia diversa. E proprio in questa azienda arriva la comunicazione dell’apertura di un teatro che porta grandi novità, quelle novità sociali di cui gli operatori del settore troppo spesso si dimenticano. Il teatro di Grassi, Strehler e Vinchi per la prima volta abbatte i prezzi dei biglietti, consentendo di entrare in sala anche ai colleghi di Lidia, analfabeti e molto poveri. Non più, inoltre, relegati ai posti in piedi, pigiati negli angoli della sala da cui si vedono a fatica porzioni di palcoscenico. Bensì seduti, tra persone di tutte le classi sociali, su comode poltrone dalle quali incantarsi per le originali rese di un coro greco da numerose voci quando si hanno a disposizione soltanto quattro attori, le prime grandi prove di un giovane Gian Maria Volontè, e persino Giorgio Strehler in veste di attore per una sostituzione dell’ultimo minuto.
La sala di via Rovello offriva alla gente comune possibilità mai avute prima, e furono proprio queste a permettere a Lidia di far sottoscrivere a Lidia 27 abbonamenti sui suoi 46 giovani colleghi.
Una tradizione proseguita nel tempo sia da loro che dai loro figli e che oggi, settanta anni e all’incirca altrettanti abbonamenti sottoscritti dopo, si onora di raccontare accanto a Pescio e allo scrittore Alberto Rollo, dopo essere diventata una istituzione. Grassi stesso, colpito da quello che la giovane aveva fatto in quella prima stagione, negli anni la invitò spesso a Bergamo, nei giorni in cui si discuteva il cartellone della stagione seguente.

Una vicenda molto più che aneddotica, che si fa simbolo di quanto il teatro sappia essere fondante nelle vite delle persone, se ci si immagina nei panni di quei 46 – in gran parte semianalfabeti – che solo davanti al sipario aperto hanno potuto formarsi una cultura e poi portarla a frutto nella vita di tutti i giorni. Sono storie così che insegnano quanto, ancora oggi, il teatro possa essere un veicolo di crescita sociale, se gestito con cura. Quando ciò non avviene, conclude Pescio con una nota di amara realtà, e ci si lamenta che il pubblico dei teatri non è più lo stesso, occorre tenere presente che «la colpa è dei teatri», che hanno il dovere di essere coraggiosi, perché così possono cambiare le sorti del contesto nel quale piantano seme ed essere ciò che il Piccolo ha saputo essere per Milano che, senza quella sala, non sarebbe ciò che è.

 

 

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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