Questi fantasmi

Ginger e Fred 1985, di Federico Fellini con Giulietta Masina e Marcello Mastroianni.

“Se si guarda il passato, non si vede il presente”, afferma una massima di Marcel Proust, che però proprio sulla memoria costruì la sua Recherche.
In questa contrapposizione potremmo seppellire i nostri intenti, se non fosse l’espediente letterario a creare a bella posta un’occasione per riprendere coscienza dei ricordi.
E, alla maniera di Proust, potremmo renderli ancora vivi e vegeti, come in un eterno presente.

Ma questo appuntamento della rubrica Polvere di stelle, non sarà una proiezione della mente, piuttosto sarà popolato da un paesaggio di persone, o fantasmi, e somiglierà a un luogo letterario alla Henry James; poi tutto scomparirà all’interno di una certa sera.
Lasciatemi il tempo per dipanare il gomitolo della storia, tutt’uno con l’ordito del destino: vi prometto che sarà reale, tanto da non eccedere nel romanticismo del ricordo.

Come nella commedia di Eduardo De Filippo Questi fantasmi, si potrà dubitare dei fatti e, forse questo contribuirà a renderli più affascinanti. Ma tutto sarà più facile, se vi ricorderete di un vecchio film di Antonio Pietrangeli, dove un ben assortito consesso di ectoplasmi, infestava allegramente un palazzo in decadenza, nel cuore della vecchia Roma.
Attori dal talento indiscusso, quali Vittorio Gassman, Eduardo De Filippo, Marcello Mastroianni, ma anche Tino Buazzelli e Sandra Milo, affascinanti nei loro ruoli di fantasmi dagli appetiti molto umani, si opponevano all’ingiustizia terrena, cercando di difendere la loro dimora fatiscente dai demolitori di palazzi.
Il film era intitolato “Fantasmi a Roma”.

La ragione per la quale ve ne parlo è presto detta. Cercavo un filo conduttore, assai meno corruttibile dell’esistenza eterica, per riannodarmi alla vicenda che voglio raccontarvi.
L’intento è mostrarvela dal mio punto di vista e riuscire a farvi partecipi della sensazione che provo al ricordo di quei giorni. La memoria condivisa può essere indulgente con il tempo e, se non può cancellare in un baleno più di trent’anni, può però riservare qualche sorpresa.
E se è vero che uno di quei fantasmi partecipò (in carne e ossa) alla nostra storia, la sua presenza non sarà mai spettrale, ma piacevole e ironica. Forse, col suo aiuto, mi riuscirà di raccontare un episodio segreto del grande cinema italiano, di cui pochi vennero a conoscenza.

Fino a quel giorno, per me, il cinema era stato fatto di storie, di volti di attori, inquadrature, ritmi: ero stata educata ad apprezzare testi importanti e grandi film, ma l’idea di partecipare a quell’evento, mi emozionò davvero.
Dirò subito che accadde d’inverno, verso la metà degli anni ottanta: l’appuntamento era sul retro di un teatro della vecchia Roma. Io vi giunsi in taxi, debitamente accompagnata da un’amica di famiglia; ero in anticipo e stringevo in mano il mio invito.
Il luogo era stato opportunamente scelto per non attirare l’attenzione di pubblico e stampa.
Così, ad accoglierci, non c’era alcunché di fastoso, nessuna cornice dorata, come quella che, dopo poco tempo, avrebbe salutato lo stesso film al Palais de Chaillot, in Francia.

La pellicola era stata inviata in segreto a una saletta in Via Panisperna, alle spalle della basilica di Santa Maria Maggiore; in quel rione romano, illuminato dalla luce gialla dei lampioni, si apriva una porticina d’ingresso, appena visibile, mentre gente solerte e silenziosa sopraggiungeva, in un via vai di taxi. Un’atmosfera da carboneria, dove a ciascuno dei convenuti si tributava un fuggevole benvenuto, che diveniva assai più cordiale appena all’interno dell’edificio.
Mi fu chiaro che si stava vivendo l’ultima fase di un intensissimo lavoro: mesi e mesi di prove e girati, il montaggio e quindi, l’anteprima del nuovo film di Federico Fellini.

Una cosa non da poco per il nostro ente cinema, realizzare una produzione del Maestro, se pensate che grandi progetti naufragano nel mare dell’impossibilità e della cautela che una casa di produzione deve osservare.
Non si può produrre solo quel che piace, ma anche fare gli interessi del pubblico e dell’ente erogante. Coniugare la propria sensibilità artistica con l’opera da produrre, valutare e trovare il modo per rendere possibile economicamente l’impresa, prevenendo azioni finanziarie disastrose.
E infine: mettere tutti d’accordo.
Erano tempi in cui un produttore dava letteralmente l’anima per realizzare un buon film.

Certo, la crisi del cinema (cosiddetto di Stato), era divenuta drammatica, se non tragica, anche se non era stata la struttura economico/produttiva a piegare le gambe, ma quella di distribuzione al pubblico. Il numero degli spettatori era sceso al livello del 1936 e l’aumento di prezzo dei biglietti aveva provocato, nella capitale, la chiusura di ben 120 sale in soli venti anni (non dimentichiamo che il cinema era nato come svago popolare a basso costo).
E infine, l’abitudine presa (e ora consolidata), di vedersi un film sullo schermo televisivo, nella pace casalinga, fece il resto. L’assottigliarsi delle differenze tra film intelligentemente fatto e confezionato, e film d’autore, andò a discapito di quest’ultimo e il cinema italiano, dapprima, non seppe come reagire.

Questa l’atmosfera di quegli anni, un altro dietro le quinte del nostro teatro di posa.
Di certo registi come Fellini si erano opposti più di altri a questo cambiamento.
E senz’altro in quel film, scritto assieme a Tullio Pinelli e Tonino Guerra, il grande regista aveva raccontato la sua mestizia.

La trama illustra una storia di due, come tanti, emuli della famosa coppia di ballerini americani, Ginger e Fred.  I loro nomi sono però Amelia e Pippo e, ormai anziani, vengono invitati a partecipare a un concorso televisivo. Interpretati magistralmente da Giulietta Masina e Marcello Mastroianni, accolgono i loro ruoli con la professionalità e l’umiltà dei teatranti di mestiere.
Nel film, coinvolti dai ritmi concitati della modernità, i nostri eroi lasciano le balere, per le  atmosfere plastificate del piccolo schermo, mentre i toni del racconto si fanno più grotteschi e la  concorrenza feroce. Abbandoneranno l’arena, non senza aver danzato un ultima volta assieme.
E se l’interpretazione dei due protagonisti ci intenerisce, con la grazia di Giulietta e il fascino di Marcello, l’amarezza del grande regista nei confronti del predominio della pubblicità, appare evidente: lo stesso risentimento lo indurrà, in seguito, a coniare lo slogan “Non si interrompe un’emozione”.

Ginger e Fred 1985, di Federico Fellini con Giulietta Masina e Marcello Mastroianni.

Ginger e Fred non fu, forse, il migliore film di Fellini, ma di certo quello a me più caro.
Una storia melanconica, che si dipanava sotto lo sguardo di un regista curioso, sempre bambino, deliziosamente bizzarro, che nel suo regno di Cinecittà, ricostruiva strabilianti ambientazioni, accolte nello spazio del mitico Teatro Cinque, che anni fa rischiò di essere demolito.
Il film segnò anche l’inizio della collaborazione con il musicista Nicola Piovani, che, per il balletto di Amelia e Pippo, scrisse una suite dei maggiori successi della coppia di ballerini più famosa del mondo, e di proposito seminò nel brano qualche grossolanità da orchestra televisiva.

Giulietta Masina, quella sera, era giunta alla proiezione in punta di piedi, assieme al marito, e indossava uno dei suoi famosi cappellini. Strinse la mano con calore a tutti e, quando le fui presentata, mi sorrise con una tenerezza che mi sembrò speciale. Ricordo di averla incontrata altre volte, ma fu quel giorno che notai quel suo modo di camminare nel mondo senza essere del mondo. Non era altera, anche se potevi immaginare che vivesse in un altrove, che non era appannaggio dei mortali e, ciononostante, l’espressione arguta non faceva dubitare della sua vivacità intellettuale.
Come pure Fellini, furono degli antidivi, così semplici e puri, da sembrare eternamente fanciulli.

Gli occhi di Federico erano simpatici e tradivano divertimento e attesa; era un uomo imponente e  sembrava altissimo, anche a causa della sua corporatura, ma non incuteva timore, al contrario, ispirava il desiderio di parlargli, con la certezza di essere ascoltati con attenzione.
Quel giorno doveva essere contento di aver accondisceso a quella conventicola, premiando per primi coloro che al film avevano lavorato: attori, produttori, comparse, tecnici… io ero tra i pochi invitati che non avessero preso parte al film, come pure l’indimenticata attrice, Laura Betti.

In seguito tornai spesso a Cinecittà Studios e suppongo che per me, per la mia creatività e per il mio lavoro, sia stato decisivo essere stata a contatto con tutti: tecnici, carpentieri e con tutte le personalità che danno vita al sistema film.
Ma di quell’anteprima  mondiale di Ginger e Fred di Federico Fellini, serberò sempre un ricordo speciale. Nessun fasto francese avrebbe mai potuto eguagliare quell’atmosfera.
Non solo a causa dell’eccezionalità della serata (i film di Fellini venivano realizzati in un clima di silenzio stampa assoluto, con gli studi piantonati dalla sicurezza), ma perché quella volta mi sentii un po’ parte di loro, di quella gente meravigliosa.

Tra gli attori che vi presero parte, non si può dimenticare Franco Fabrizi, il cui ruolo di conduttore televisivo gli valse una nomination all’Oscar, come migliore attore non protagonista.
Solo ora mi accorgo, con un po’ di malinconia, che molte di quelle persone non ci sono più. Non solo i grandi personaggi, non solo gli  attori, il regista, ma anche molti altri convitati…
Sono scomparsi da anni.

Forse è normale essere tentati di riandarvi con la memoria e immaginare tutti ancora lì, in una sala di proiezione abbandonata, tra le ragnatele e la polvere, come nel palazzo di Fantasmi a Roma: chissà se avranno combattuto anche loro per salvare il mitico Teatro Cinque?
E poi, tra tanti volti celebri, scoprire un bagliore, fioco e confortante, del tempo in cui i film non erano costruiti ad hoc per la pubblicità, ma vissuti come opere d’arte, da amare e completare, con l’aiuto di tutte le maestranze, che svolgevano una parte importantissima, dal regista all’ultimo tecnico delle luci.
Una famiglia di talenti, che il film custodirà per sempre.

Nella vecchia saletta di proiezione appare d’un tratto un altro volto indimenticabile, quello di Marcello Mastroianni, interprete del compagno di ballo di Amelia/Giulietta; era ancora assai giovanile, rispetto al ruolo interpretato nel film.
Quando lo intravidi stava parlando con il regista, stringeva una sigaretta tra le dita e mi sembrò impaziente, quasi volesse ingannare l’attesa.

Ma quello che mi colpì di più fu la voce. Era meravigliosa. Credo che possedesse dei toni speciali per aprire un varco nel cuore di chiunque. Una voce che poteva scindersi in molte tonalità e ciascuna accendeva una risonanza: ironica, tenera, affascinante, cinica…
Era cordiale, ma schivo e, a differenza di Fellini, a lui non avrei chiesto alcunché, perché, in qualche modo, quella voce mi intimidiva

Al termine della proiezione del film, seguì un piccolo rinfresco, e poi, a ciascuno dei convenuti, fu regalata la copia di una vignetta satirica che il Maestro aveva disegnato durante le riprese: raffigurava sé stesso come un gigantesco burattinaio, intento a tirare i fili di due ballerini-marionetta.
“Non lo siamo tutti nella vita?”, aveva detto qualcuno…

L’eco di quelle parole mi riportano d’improvviso ai nostri giorni: osservo di fronte a me quello schizzo, a matita colorata, appeso alla parete del mio studio e penso che è ancora attuale e provocatorio.

Se oggi ho raccontato di quei giorni, ho inteso farlo senza clamore, lasciando appena una traccia al bivio: Questi fantasmi
Nessun apprezzamento altisonante avrebbe reso giustizia di quei momenti che sto condividendo con voi: non c’è alcun altro modo per descriverli, che rispettare l’atmosfera in cui si svolsero.

A ritroso nel tempo, ancora una volta: i riflettori si spengono, le figure si fanno indistinte, il sipario si chiude.
Ma io so che sono tutti ancora lì.
La famiglia di Ginger e Fred, un “figlio minore“ nella carriera di Federico Fellini, ma non per questo meno amato da chi lo ideò, da chi lo allestì, da chi vi partecipò e da chi, in futuro, saprà coglierne ancora il messaggio.

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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