Aiace. La poesia di Jannis Ritsos e l’evocazione limpida di Viola Graziosi

Aiace. Photo S.Ottaviano
Aiace. Photo S.Ottaviano

Un testo struggente, estraniante, dilaniante l’Aiace di Jannis Ritsos in scena al Teatro Lo Spazio di Roma per la regia di Graziano Piazza e la scenografia musicale di Arturo Annecchino.
Un’attrice, Viola Graziosi, che si misura in un corpo a corpo con le parole ed ha in sé tutte le corde per potersi fare lei stessa poesia e mostrare i volti vivi  sia del poeta sia dell’eroe.

Ritsos, nel suo Aiace, scritto alla fine degli anni ’60 rende la tragedia di Sofocle un racconto del presente: l’uomo che, di fronte alla vessazione senza scampo è  chiamato ad una scelta che è al contempo sorte e ribellione. Per essere libero deve riprendere in mano il suo destino e non può farlo che attraverso un gesto arcaico: il gesto tragico.

Nel suo delirio, nel suo ricordo, nella sua espiazione, l’Aiace di Ritsos racconta ad una donna la sua sofferenza, la sua lotta contro un mondo che lo ha ingannato, che lo ha ridicolizzato davanti agli uomini ed agli dei, preferendo a lui – eroe secondo solo ad Achille – quell’Ulisse che si svincola dalla tradizione e s’accende di cambiamento.

Quest’uomo, che dovrà uccidersi per dar pace alla sua infelicità, nella messa in scena di Graziano Piazza viene evocato da una figura di donna. Una figura luminosa, eretta, che porta ricordi, accoglienza, limpidezza. È forse Tecmessa, la sua compagna, oppure un’apparizione o, forse, è la parte più sensibile dell’eroe stesso che s’incarna per raccontarci il pensiero, il dramma, le speranze, i gesti quotidiani, gli affetti, la nebbia, le febbri, lo sguardo del re di Salamina, tanto puro d’intenti e tanto incapace di accettare la sua afflizione da non riuscire a resistere alla sua vergogna.

Viola Graziosi lo fa con la sua interpretazione intensa, con la voce che modula parole come fossero canti, lo fa restando in bilico fra l’essere una madre che ascolta e lenisce, una compagna che condivide e risponde ed un’Atena che, pur scoprendosi artefice di tanta disfatta, resta il nume che srotola il filo della tragedia stessa.
Si materializza sul palco lasciando cadere le sue perle di vetro ed ingaggia la sua danza con il testo che pure, a volte, sembra sopraffarne la recitazione e dominarla.

Mi sono mancati, ad esempio, gesti “altri”, diversi da quelli che la tragedia ci impone, da quelli che pur dando spazio alla poesia, opacizzano la genialità di un’idea, quella della visione al femminile di un eroe che potrebbe essere il migliore, ma si acceca con il proprio dolore e con la propria rabbia. L’assenza di azioni che scavino, come chiedono le parole, nelle viscere di chi ascolta privano la bravura inattaccabile di Viola Graziosi di forza e significato anche se, in più punti è lei stessa a far sì che, almeno, acquistino in purezza.
Ma può esistere una tragedia autentica e al contempo incorruttibile? Si può andare oltre la potenza del verso che si fa carne per mostrarci le nostre rovine, le carneficine che perpetriamo e quelle di cui restiamo vittime? Si può raccontare la protesta contro ogni sopruso senza mostrare il sangue che lo ha alimentato?

Questa Aiace, vestita dei colori di un tramonto che si lacera, resta incastonata nell’immaginario trasparente di quelle perle di vetro che, infine, assumeranno forme d’acqua, di sasso, di collana come fossero l’unico legame rimasto con l’essenza di Aiace l’eroe la cui voce s’allontana e si spezza.

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Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

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