Fluid Journey alla Fondazione Pastificio Cerere. Intervista a Silvia Litardi

Anna Raimondo, La vie en bleu, Sound work 11’, 2012. Installation View Fondazione Pastificio Cerere. Crediti: Pierpaolo Lo Giudice.

Fluid Journey, letteralmente viaggio fluido, è una mostra che si pone l’obiettivo di offrire allo spettatore nuovi punti di vista allargando il suo sguardo verso molteplici mondi. A cura di Silvia Litardi, l’esposizione, visibile presso gli spazi della Fondazione Pastificio Cerere, si compone di opere realizzate attraverso differenti media da Alterazioni Video, Younes Baba-Ali, Julian D’Angiolillo, Maj Hasager, Ibrahim Mahama, Anna Raimondo dando luogo ad un intenso ed affascinante itinerario. Ogni artista e/o collettivo, ponendosi come osservatore straniero nei confronti della comunità locale, propone una lettura innovativa del contesto storico-culturale rispetto al quale si accosta. Un approccio multiculturale che vuole far riflettere su importanti e vigenti questioni dell’attuale panorama internazionale.

Per approfondire ne abbiamo parlato con la curatrice del progetto Silvia Litardi:

 

Silvia, prendendo le mosse dalla “social spatial theory” elaborata da Henri Lefebvre, hai ideato la mostra Fluid Journey incentrata sul tema dello spazio inteso come luogo semantico di negoziazione di senso in cui l’artista assume i connotati dello straniero rispetto a una cultura autoctona. Vuoi raccontarci quando e perché ha avuto inizio questa ricerca?

“Ho proceduto seguendo questa assonanza tra artista e straniero rispetto ad un contesto, l’idea è molto semplice: ambedue possono posare lo sguardo, attraversare un contesto fisico e relazionale riattivandone storie, usi e costumi o facendo emergere delle evidenze sopite.

La cornice concettuale di Fluid Journey inizia a delinearsi a Copenaghen nel 2015 dove ho trascorso un paio di mesi come Visiting Curator presso il DCAI/CKI – Danish Centre for Arts & Interculture sotto la guida di Niels Righolt, esperto in “audience development and engagement”. In quel momento conducevo una ricerca sulla produzione culturale come co-creazione e i casi studio che andavo raccogliendo in Danimarca, non solo nell’ambito delle arti visive, mi spingevano a dotarmi di strumenti di lettura più trasversali per leggere la produzione contemporanea. Grazie all’incontro con Maj Hasager e al suo invito a scrivere un saggio per We will meet in the blind spot(n.d.R.: S. Litardi, Copenhagen, Rome or Manila?, in Maj Hasager. Making Visible, Malmö: Woodpecker Projects, 2015 pp. 56-61) – vedi il progetto in mostra – ho messo a fuoco gli elementi su cui volevo lavorare. Maj aveva girato a Roma nel 2014 un docu-fiction nel quartiere dell’Eur, partendo da ciò che simbolicamente quel progetto urbanistico rappresenta: incarnazione del fallimento dell’Expo del 1942 e del Fascismo, manifesto della Terza Roma di Mussolini, set cinematografico negli anni Sessanta e Settanta. Alle immagini dall’archivio dell’Esposizione Universale di Roma, l’artista intreccia le immagini del quartiere che è oggi, colto nei giorni caldi dell’estate, affidando all’attraversamento di una donna sempre ripresa di spalle e ad una voce narrante, le storie di uomini e donne della comunità filippina che qui vivono e lavorano.  Nella seconda parte del video, quelle stesse persone sono seguite dall’artista nel giorno di riposo dal lavoro, quando si incontrano nei parchi del quartiere o per pranzare insieme, ritrovandosi come comunità. We will meet in the blind spot ritrae la convivenza tra un paesaggio reale – landscape – e un paesaggio etnico – ethnoscape – correlato ai flussi migratori. Le condizioni di tale convivenza sono costantemente ritrattate secondo l’andamento della domanda di città. Le scelte dell’artista danese verso un quartiere della città non sentito dai suoi abitanti come rappresentativo e di una comunità filippina generalmente non percepita tra le comunità immigrate “pericolose” o stigmatizzate da una serie di luoghi comuni, mi erano parse peculiari. Erving Goffman descrive con la formula disattenzione civile una serie di atteggiamenti che dicono della percezione distratta dell’altro, non particolarmente interessante, ma neppure pericoloso. Tale disattenzione e distrazione è qualcosa che può essere agito da coloro che ne sono colpiti e trova in alcune pratiche artistiche la sua controparte.”

Per la realizzazione dell’esposizione hai assemblato un corposo nucleo di artisti e/o collettivi di varia nazionalità – Alterazioni Video, Younes Baba-Ali, Julian D’Angiolillo, Maj Hasager, Ibrahim Mahama e Anna Raimondo – che operano indagando concetti e problematiche sociali attualissime come il disagio dell’emigrato nei confronti di una comunità locale e della sua identità autoctona. Secondo quali criteri hai selezionato i creativi ed i relativi progetti da inserire nell’esposizione?

“Non si tratta di selezione, o inserimento, o assemblaggio, ma del tentativo di dare corpo ad un pensiero critico in divenire, ancora non perfettamente formalizzato e, pertanto, aperto ad essere esperito e agito, smentito e modificato. Interpreto così il privilegio della mia professione di curatore. Con “Fluid Journey” ho dato corda alla mia tendenza a guardare/vedere un luogo nuovo con uno vecchio, il noto con l’ignoto, una metodologia istintiva che mi ha permesso di articolare uno spazio, espositivo e cognitivo, di contemplazione e di riflessione. Tale articolazione non avviene prima dell’incontro con l’artista e la sua opera, ma in concomitanza. L’esposizione nello spazio è la messa in opera di questa costruzione di pensiero, non una mera illustrazione, ma a sua volta un dispositivo vivo. Le ragioni e le suggestioni del titolo sono molteplici: una tra tutte la capacità di una mostra collettiva di leggere un lavoro grazie alle questioni che un altro innesca, il viaggio fluido non è soltanto tra i luoghi e le comunità che gli artisti scelgono, ma anche tra le loro identità, poetiche e pratiche.”

Alcuni di questi artisti analizzano drammi esistenti nel proprio paese d’origine – come Julian D’Angiolillo – mentre altri – come Alterazioni Video – osservano e si occupano di tragedie che non li riguardano direttamente. Puoi illuminarci circa i motivi che hanno spinto alcuni di questi artisti a porsi in qualità di osservatori nei confronti del contesto indagato? 

“Immediatamente il viaggio evoca luoghi e comunità, ma addentrandosi emerge un livello ulteriore, un deambulare tra narrazioni in cui si intrecciano le identità dell’autore, del contesto in cui va ad operare e, successivamente, quella dello spettatore.

Ho preso in prestito il concetto di ethnoscapes (A. Appadurai, 1996) – dove la località influenza e ridefinisce le supposte matrici originarie di una composizione culturale o, più semplicemente, il dato paesaggistico non può che fondersi con il panorama umano che lo abita in maniera più o meno stabile – per guardare attraverso un’altra lente e annullare la distinzione tra gli artisti che si rivolgono al proprio contesto e di coloro che spostano lo sguardo altrove. La Buenos Aires in cui opera Julian D’Angiolillo è la città-Stato in cui il Capitalismo Globale ha sperimentato la crisi finanziaria (2001) che poi ha dilagato in tutto il mondo, una città che è emblema del paradigma globale. Antropolis è stata un’opera d’arte pubblica, ma anche semplicemente un giardino commissionato dal comitato di “Tecnopolis”, il parco tecnologico (una sorta di Expo) promosso dal Governo per festeggiare i 200 anni dell’Indipendenza della Repubblica Argentina (2011). Come l’artista ha usato tale occasione? In quale operazione si è spinto e con quale modalità? Il video e le opere in mostra relative a quel progetto ci riportano ad un’operazione site specific, una poetica azione sul margine, sul farsi e disfarsi della città e quindi della società. L’artista ghanese Ibrahim Mahama, con il lavoro video Self Occupation, ci offre un’ampia ricognizione delle imponenti installazioni su edifici pubblici nelle città di Accra e Tamale (Occupation 2011 – on-going). Una serie di interventi in cui, simbolicamente, i sacchi di juta sono associati con il commercio e l’esportazione del cacao, utilizzati per mettere in discussione il ruolo dell’oggetto all’interno dei processi di transazioni e di scambio. L’attenzione di Mahama sull’economia locale si inserisce nel più ampio discorso sulle economie post-coloniali e, di nuovo, sull’economia di scala globale. Come Julian D’Angiolillo, Ibrahim Mahama lavora sul suo contesto, ma parlando di dinamiche che ci coinvolgono tutti.

I due lavori in mostra di Anna Raimondo, che hanno un legame meno immediato con un dato di realtà, rappresentano un cardine nella costruzione del progetto curatoriale (che è, in definitiva, un’altra narrazione): il soundscape Le vie en bleu e il video Mediterraneo hanno in comune il mare come luogo dove le onde si propagano, siano esse acustiche, mitiche, epiche. La fluidità evocata dal titolo della mostra diventa qui esplicita e corporea: ascoltare Le vie en bleu è ritrovare le marche sonore di Napoli fuse a quelle di Marsiglia, città sorella su un’altra sponda dello stesso Mar Mediterraneo. Lasciarsi andare al flusso continuo di Mediterraneo è un’esperienza che resiste alla descrizione che la parola può dare. L’idea del naufragio che ci riporta alle tragiche vicende umane che il mare inghiotte, funziona anche come naufragio del binomio tra l’io e l’altro e tra gli artisti che parlano del proprio o di un altro contesto.

In Fluid Journey sono proposte quasi tutte opere video, segno di come questa pratica artistica sia divenuta oggi uno strumento fondamentale in quanto unico media capace di delineare e rappresentare in maniera immediata la realtà a noi circostante esponendo, inoltre, il punto di osservazione soggettivo di colui che riprende. La mostra vuole, infatti, restituire ciò che il titolo preannuncia ovvero generare, attraverso un intenso percorso, un viaggio fluido tra differenti visioni che dischiudono a molteplici mondi e contesti… vuoi illustrarcelo?

“Come dici giustamente, la mostra è un altro tipo di viaggio! Ho usato la parola contemplazione perché questa mostra richiede un tempo di fruizione lungo trasformando la Fondazione Pastificio Cerere in uno spazio immersivo: sono presenti perlopiù un progetto per artista, un video o sound accompagnato da opere fotografiche, collage, disegni e installazioni. Complessivamente i lavori video e sonori sviluppano circa 2 ore e 30 minuti, il che non è consueto per una mostra in uno spazio relativamente piccolo. Lo sforzo richiesto al visitatore è al tempo stesso un dono: l’occasione di andare da un lato all’altro del mondo, di conoscere la poetica e la pratica di artisti internazionali.

Facendo un cenno alla natura del media, il video, come il cinema, presuppone una relazione tra l’artista e l’oggetto molto più stretta rispetto ad altre produzioni e “mostra continuamente l’intervento, per così dire in vivo, dell’autore, la cui presenza non riesce più a scomparire nell’opera” (Gilles Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione, Napoli: Cronopio, 2006, p 57). Tale “mancanza di distanza” tra soggetto e oggetto della narrazione è forse il vero protagonista di Ambaradan, il Turbo Film di Alterazioni Video. Gli artisti ci portano con loro in Ethiopia, nella Valle dell’Omo, una zona interessata dallo stravolgimento che la costruzione di una grande diga sta provocando su un vastissimo territorio e sulle comunità che vi abitano. Gli artisti hanno passato un lungo tempo in uno dei villaggi con l’intenzione di produrre un film, ma senza un copione preciso: l’ideazione delle situazioni, e, in definitiva, del film stesso, sono create in dialogo. Ancora una volta il soggetto narrante, l’artista, usa la sua autorialità per mettere in discussione la dinamica tra l’io e l’altro, e quindi la rappresentazione.”

Osservando le opere presentate è possibile notare il filo che le congiunge ovvero ogni lavoro denuncia un dramma tuttora in corso: da We will meet in the blind spot di Mai Hasager a Ambaradan di Alterazioni Video, da Mediterraneo di Anna Raimondo a Pulizia di Younes Baba-Ali, da Antropolis Memorabilia di Julian D’Angiolillo a Self Occupation di Ibrahim Mahama… sei d’accordo?  

 “Ci troviamo nel regime estetico delle arti che decreta la totale autonomia dell’opera d’arte e ci indica di posizionare il tratto reportagistico che alcuni lavori possiedono, in quanto gancio con i dati di realtà, ma non credo che gli artisti denuncino dei drammi, quanto piuttosto costruiscono delle narrazioni poetiche grazie alle quali delle storie (siano esse tragiche e peculiari) emergono e diventano universalmente riconoscibili.

Ad esempio, in Pulizia il lavoro che presento di Younes Baba Alì, marocchino di nascita, francese di educazione e belga per residenza, invita un gruppo di migranti, per la maggioranza senegalesi, a pulire vari luoghi della città di Napoli indossando i panni di una compagnia di pulizie fittizia che ha come logo quella della Polizia italiana. Nel video documentario dell’azione (parte di una serie) si vede la stazione ferroviaria di Mergellina tirata a lucido in un giorno feriale, sotto gli occhi indifferenti delle persone. La normalità e la verosimiglianza dell’azione ci riportano a quella “disattenzione civile” di cui parlavo all’inizio, usata in questo caso per mettere in scena un cortocircuito tra lavoro, cura, spazio pubblico, controllo e sicurezza.”

Silvia, lavorando in Italia e all’estero hai potuto confrontarti con vari contesti culturali e respirare diverse realtà intellettuali, come d’altronde anche gli artisti che qui presenti. Tuttavia, proporre a Roma una mostra che pone l’accento sul tema dell’emigrazione/immigrazione e sui concetti di identità autoctona e comunità locale in questo momento di grande diffidenza verso colui che è diverso (per nazionalità, cultura, religione..) può essere recepita dall’osservatore sia come una provocazione o un ‘pericolo’ sia come un modo per riflettere su ciò che sta accadendo in Europa. A fronte di tale osservazione ti chiedo: come ha reagito il pubblico romano nei confronti di Fluid Journey?

“Occasioni preziose in tal senso sono state le visite guidate e le giornate dedicate all’approfondimento della mostra, soprattutto il Symposium al MLAC_Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea, La Sapienza di Roma, dove alcuni degli artisti invitati si sono conosciuti, hanno riflettuto delle proprie opere e urgenze in dialogo con i critici e curatori Costanza Meli, Marco Trulli e con Niels Righolt, Jean-Leonard Touadì e la sottoscritta. Aprire il pensiero critico in divenire attraverso queste forme di dialogo e confronto, siano esse specialistiche o di disseminazione, è una deriva della curatela che io sento urgente e alla quale vorrei lavorare con maggiore dedizione. La Roma in cui vivo, lavoro e respiro, a mio avviso, ha fame di articolare, riflettere e superare i suoi fallimenti culturali, sociali e politici e per questo, sono dell’idea che sia questo un terreno fertilissimo dove sperimentare un discorso interculturale e interdisciplinare partendo dai temi che abbiamo tutti sotto gli occhi nel nostro quotidiano. Sono convinta che la sensazione di pericolo e di diffidenza a cui fai cenno nasce dai luoghi comuni, dalla mancanza di dialogo e confronto e la Cultura è il campo privilegiato in cui si può lavorare per invertire questa rotta. Forse proprio per questo si investe sempre meno nella Cultura?”

Info mostra 

  • Fluid Journey: Alterazioni Video, Younes Baba-Ali, Julian D’Angiolillo, Maj Hasager, Ibrahim Mahama, Anna Raimondo
  • a cura di Silvia Litardi
  • fino al 13 maggio 2017 – Prorogata al 19 maggio
  • Fondazione Pastificio Cerere, via degli Ausoni, 7 – 00185 – Roma
  • ingresso libero
  • orario: lunedì – venerdì 15:00 -19:00; sabato 16:00 – 20:00
  • segreteria organizzativa: Claudia Cavalieri e Emanuela Pigliacelli
    tel. +39 06 45422960
  • http:// www.pastificiocerere.com | info@pastificiocerere.it
  •  Ufficio Stampa press@pastificiocerere.it

 

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Buglioni Maila è storico dell’arte e curatore di mostre. Fin da piccola ha manifestato un innato interesse verso ogni forma d’arte: dalle arti visive alla danza, dal teatro all’architettura. Dopo il diploma presso l’Istituto d’Arte Sacra Roma II, ha proseguito gli studi all’Università ‘La Sapienza’ di Roma, dove ha conseguito la laurea specialistica in Storia dell’arte contemporanea. Ha collaborato con l’associazione turistica Genti&Paesi in qualità di guida turistica nella città di Roma. Collabora attivamente con altre riviste specializzate del settore artistico. Nel 2013 ha collaborato alla realizzazione di Memorie Urbane - Street Art Festival a Gaeta e Terracina.

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