Salone del Libro di Torino #7. Lidia Ravera e gli sguardi nuovi del Terzo tempo

Nelle partite di rugby, il terzo tempo è, per molti versi, il più importante. Un fatto paradossale, se si considera che arriva dopo il fischio finale. Si tratta infatti del momento in cui, spento l’agonismo, le due squadre si ritrovano a bere insieme, in un momento conviviale che prescinde da qualsiasi risultato agonistico. Un tempo nel quale si riscoprono reciprocamente le persone, ma soprattutto un momento di gioia, di appagamento, che chiede di essere vissuto appieno. Una metafora applicabile a molti ambiti, suggerisce Lidia Ravera, che ha intitolato proprio Il terzo tempo il suo ultimo romanzo. Anche, suggerisce, alle età della vita.

Questo ultimo, presentato al Salone del Libro, è il compimento di una sorta di “trilogia della vecchiaia”, il cui primo capitolo, Piangi pure è stato portato in scena da Lella Costa (con il titolo Nuda proprietà) che a Torino ha prestato la voce ad alcuni intensi passaggi del nuovo volume, destinato a prendere anche una nuova forma; ad esempio, suggerisce Costa, quella televisiva.

Nel frattempo però, è in carta e inchiostro che un’autrice simbolo di generazioni di giovani si trova a confrontarsi col tempo che passa. Un passaggio che coinvolge i figli del Sessantotto, cresciuti con il mito della giovinezza perenne, e affratellati, oltre che dalle idee, «da una viscerale paura di invecchiare», che anche i protagonisti di un romanzo, quando acquistano una propria tridimensionalità e vita, possono aiutare ad affrontare.

Quella immaginata dalla Ravera può essere una soluzione interessante: sfruttare il convento lasciato in eredità dal padre per trasformarla in una casa di riposo alternativa, una comune che porti gli echi del tempo che fu.

Ma non c’è nessuna amarezza, nessuna nostalgia, nell’immagine tratteggiata dalla Ravera. Al contrario, quello che la scrittrice suggerisce è un modo diverso di confrontarsi con la vecchiaia. Perchè se, parafrasando Tolstoj, «ciascuno invecchia a modo suo», il terzo tempo della vita può essere inteso come «un tempo di conciliazione, perché si riconosce il superfluo» e lo si può evitare. Un insegnamento importante per chi ha avuto il tempo di comprendere chi è, e rimette al centro se stesso. La vecchiaia – asserisce la scrittrice, incalzata dalle domande di Elena Loewenthal – «riaccende il protagonismo». Che non si trasforma in presunzione, bensì in lentezza. Quella delle foglie d’autunno, necessaria a farsi portare dal vento, con grazia, lungo la caduta.

Costanza, la protagonista, cadendo scopre se stessa e i suoi aspetti più sorprendenti, come il piacere di pagare una giovane con cui fare conversazione, rifiutando l’umiliazione del regalo del suo tempo.
Peculiarità che provano quanto ogni aggettivazione sia dannosa. A dimostrarlo è un romanzo definito da Lella Costa «sapientissimo, ricco di spunti che è necessario avere il cuore di accogliere».
Lo stesso che non manca ai suoi protagonisti.

Gli inquilini di questa insolita casa di riposo devono infatti essere «pochi, coraggiosi, abili a navigare, perché questo sarà un viaggio di bonaccia e di tempesta», che può essere vissuta pienamente soltanto ad una condizione, che permette alla  vita di manifestare la sua potenza. Vivere il proprio terzo tempo come quello dell’eroe Ulisse. Divorati, fino all’ultimo istante, di una insopprimibile e mai doma curiosità.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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