Salone del Libro di Torino #10. Notturno Cileno, Gifuni è la voce della storia di un popolo e dell’agonia di un uomo

«Ora muoio, ma ho ancora molte cose da dire. Ero in pace con me stesso. Muto e in pace. Ma all’improvviso le cose sono emerse» Il momento in si è coscienti che la vita ci abbandona è quello dei bilanci, per guardarsi indietro e tirare le somme della propria esistenza. Per il vecchio prete Urrutìa Delacroix però, non può spegnersi serenamente. I suoi occhi e la sua mente sono invasi dalle immagini di un «giovane invecchiato», che da tempo lo copre di insulti, spandendo sul suo conto quelle che definisce «falsità». La vita del vecchio prete è infatti ricca di ricordi densi e dolorosi, all’insegna soprattutto del silenzio. Quello con il quale il prelato, eminente critico letterario, ha coperto ciò che si osservava accadere intorno, mentre passava attraverso i passaggi più neri della storia del suo Paese, il Cile.

Pagine snocciolate lungo la sua ultima notte: è composto così Notturno cileno, l’ultimo romanzo di Roberto Bolaño.
Ne risulta un flusso di coscienza vertiginoso che deve molto del proprio fascino al suono della sua lingua. Per questo, la lettura ad alta voce incisa da Fabrizio Gifuni per Emons audiolibri trasforma la lettura in una esperienza ancor più ricca.  Che acquisisce ulteriori sfumature quando Gifuni – come già fatto in teatro con Pasolini, Gadda e Testori – lo trasforma in un reading per la scena.
Non è ancora dato sapere se il romanzo dell’autore sudamericano avrà lo stesso destino dei precedenti, ma un saggio di ciò che potrà essere è stato dato al Salone del Libro, in cui la presentazione del volume si è trasformata in un momento squisitamente teatrale, benché a luci accese.

Nella bella cornice della Sala 500 del Lingotto Gifuni mette di fronte agli spettatori – attraverso un’attenta selezione di passi dell’opera – l’agonia di un uomo che ripercorre se stesso e ciò che lo ha reso colui che è stato. Il seminario, la carriera letteraria in un Paese nel quale “la letteratura è una stravaganza”.
Mosso, afferma, da una stessa ricerca: «la pace, la responsabilità delle parole, dei suoni, e delle azioni» tacitata tuttavia quando frequentava le eleganti feste di Maria Canales, scrittrice e  moglie di un americano, Jimmy, nel cui sotterraneo venivano interrogati, seviziati e, non di rado, uccisi, i nemici del regime. E chi aveva visto aveva taciuto, fino a che il vento non era cambiato, per poi lasciarla sola.

È questa la vita che il prelato sta concludendo, con la rabbia e rassegnazione a cui Gifuni presta un tono ipnotico e scandito, eppure estremamente intenso. Anche nella prima lettura di questo testo davanti a un pubblico riesce ad affascinare, e le luci accese si trasformano in un vantaggio. I toni talora inquietanti talaltra persino melliflui scivolano tra la storia di un popolo, l’esistenza di un uomo e quella che «per non finire in discarica chiamiamo letteratura». Urrutìa – e l’autore attraverso di lui, fa i conti con quel Cile amato e odiato con intensità, mentre le mani graffiano l’aria, quasi a cercare un ultimo appiglio di lucidità per rispondere alla domanda che ormai lo assilla: «sono io il giovane invecchiato?»

 

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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