Medea, una di noi. Numeri – Pentateuco #4

«Ogni volta che mi arriva una parte, anche la più classica, la traduco in dialetto. Solo così si elimina quel po’ di ampolloso che viene fuori quando un ruolo arriva sul palcoscenico». Il consiglio alle giovani leve è di Mariangela Melato. Una lezione che La Confraternita del Chianti sembra avere fatto propria. Nell’ambito del loro Pentateuco sulla migrazione, ospitato al Teatro Verdi di Milano, la compagnia sceglie infatti di rileggere coi propri occhi uno dei classici più noti ed amati del teatro antico, Medea; riletto per millenni, da Euripide a Seneca fino proprio, paradossalmente, alla Melato. Per la Confraternita si trasforma nel quarto capitolo, Numeri.

Come spogliare quindi uno dei testi più potenti della storia della patina vagamente retorica di cui il tempo lo ha rivestito? Ad esempio, prestandogli una voce che parla dialetto. In questo caso, il calabrese. Un testo senza tempo si dimostra infatti capace di parlare al presente quando ci si accorge di quanto precise suonano ancora parole e contenuti se si prova a immaginare una Medea di Calabria. Una donna come tante, semplice e schietta. Che trascorre giorni, mesi e anni in attesa di un Giasone partito con la valigia di cartone dei nostri nonni, verso la città più italiana del Sud America, Buenos Aires.
Nell’attesa di una lettera che la inviti a seguirlo e che non arriva mai. Così è lei a scegliere di partire, di andare a cercalo, prendere la nave e partire, divisa tra sacrificio ed esaltazione, perché «i viaggi hanno sempre tanta speranza», siano sulla nave Argo o su una delle cosiddette carrette del mare.
Non è certo difficile trovarlo, una volta sbarcata. Il calabrese Giasone non è più tale. Ha sposato una principessa, la figlia di Creonte il latifondista. Ora è un gaucho tronfio che sorseggia mate, si è trasformato in una macchietta di sé, l’arricchito che dice di volere soltanto il bene dei propri figli.
Così Medea resta sola, straniera in terra straniera, senza patria. Divisa tra la sete di vendetta della strega rabbiosa e spietata e il bisogno spasmodico di un ancora, qualcuno o qualcosa a cui aggrapparsi. Chiunque, un Egeo come un altro, che passava di lì.
La sua sintesi è a sua volta bifronte: il coraggio e la finzione. Il coraggio di parlare, gridare davanti a chi la vuole muta, e la menzogna del pentimento, che le bagna gli occhi di lacrime posticce mentre tinge di rosso sangue la veste che dona alla rivale. Una violenza che la isola ancora di più. Anche gli altri senza patria, che creano il coro attualizzando un altro codice antico, scacciano «l’esperta in veleni»: un atto tanto mostruoso le cancella intorno anche l’ultimo “noi”. Non le resta che l’atto estremo noto a tutti, la morte dei figli. l’apice del pathos che nella messa in scena la fa grandeggiare anche fisicamente, nel momento in cui tutto sembra crollare. Forse.
La regia di Marco di Stefano tratteggia una scena che si serve di elementi semplici e di impatto, dove i colori forti e le luci a tratti violente contrastano con il nero cupo della vicenda e della protagonista.
Una costruzione al servizio di un testo, nuovamente firmato Chiara Boscaro, che trova toni in alcuni punti più lievi dei lavori precedenti, ma sempre pregevole. Una riscrittura dove trovano spazio passaggi testuali di una finezza lessicale sorprendente, in una efficace unione fra linguaggio alto che avoca la tragedia antica e la concretezza sanguigna del suono della lingua della terra, di un dialetto vitalissimo.
Un capitolo, questo quarto, che è debitore in modo particolare della voce della sua protagonista, Giulia Versari. Un’interprete che riempie la scena mescolando i registri, dall’ironico al patico.
Una donna sola in scena che si trasforma anche in Giasone, giocando sul filo della verità della tragedia e dell’ironia su personaggi vistosamente tali, svuotati di sé in piena coerenza con la vicenda.
Di fronte alla maschera grottesca di Giasone non si può che ridere, con l’amarezza tuttavia di riconoscere una storia che molti potrebbero ritrovare in quella delle proprie famiglie non più di un secolo fa, se non oggi. L’ironia non elimina però nulla della forza emotiva autentica che ancora sa suscitare una delle tragedie più amate di sempre, che ancora ci interroga davanti a una donna che da un lato ci terrorizza e dall’altro ci avvicina, ci induce ad essere accanto a lei, verso «la meta finale di ogni migrante: una casa più comoda dove essere infelice».

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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