Nino Longobardi. Apparenze. Sacralità e quell’ironia come passione che si libera nel distacco

Gute Schlafen Federico - Nino Longobardi, Castel Del Monte. Foto di Fulvio Ambrosio 2017, 90x200cm, materiali vari.

Nato a Napoli nel 1953, Nino Longobardi è uno dei protagonisti della pittura italiana dell’ultimo ventennio. Egli ha eletto a soggetti principali della sua ricerca figurativa, dal segno fortemente espressivo, la figura umana e soprattutto elementi simbolici come teschi e altre parti dello scheletro, umane anche queste; in particolare, le ossa rimandando alla consunzione e alla morte, un repertorio  generalmente considerato drammatico e soprattutto un tabù nella Società contemporanea occidentale ma il cui contatto è, invece, quotidiano in molta cultura tradizionale: sia come presenza apotropaica sia come naturalità del ciclo della vita.

Gute Schlafen Federico – Nino Longobardi, Castel Del Monte. Foto di Fulvio Ambrosio 2017, 90x200cm, materiali vari.
Altre Immagini Mossosi verso l’arte inizialmente da autodidatta, Longobardi si è poi formato direttamente nel mondo dell’arte, nelle gallerie  e con maestri come Filiberto Menna, Carlo Alfano, Achille Bonito Oliva e Lucio Amelio. Il grande gallerista napoletano e l’artista si conobbero nel 1969 e dall’incontro nacque una collaborazione di venticinque anni, fino al ’94, data della morte di Amelio. Longobardi lo aiutava negli allestimenti, seguiva nelle mostre i colleghi tra i quali Joseph Beuys; finalmente espose anche lui in galleria, nel 1979, dopo una prima personale, nel 1978, nello studio-galleria di Gianni Pisani, pure a Napoli.

Longobardi pratica una grammatica pittorica, in quel periodo con disegni e carte su parete, imponendo al suo lavoro una contaminazione linguistica e coniugando la bidimensionalità densa, compatta, alla tridimensionalità e alla riflessione sulla struttura e sullo spazio.

Gli anni Ottanta, che lo vedono anche presente nella sezione della Biennale di Venezia del 1980, Aperto ’80, di Achille Bonito Oliva e Harald Szeemann, lo inquadrano nella realtà transavanguardista  in cui, però, rispetto alla considerazione del passato, egli prende una posizione irregolare: la memoria è, cioè, fondamenta per una riprogettazione del presente. Un presente che  a Napoli, il 23 novembre 1980, arriva con sconvolgente violenza: il terremoto, drammatico e catastrofico per  la Campania e la Basilicata, sarà affrontato da lui e da altri artisti nel corale progetto Terrae Motus. La mostra-collezione in progress che ne nascerà, trainata dalla lungimiranza di Lucio Amelio, vedrà coinvolti Beuys, Warhol, Haring, Rauschenberg, Barceló, Cragg, Cucchi, Fabro, Gilbert & George, Long, Mapplethorpe, Schifano, Paladino, Paolini, Pistoletto, Gerhard Richter, Vedova, tra gli altri, oltre allo stesso Longobardi. Il cataclisma dilata la forza della sua pittura, che si fa più incisiva e gestuale accogliendo – attraverso immagini anatomiche: i citati teschi, ossa e corpi – un’attenta valutazione sul dramma della vita ma aprendosi a una visione e a un’arte con possibilità purificatrici. Qualcosa che sembra confermarsi nella riuscitissima mostra in Puglia, a Castel del Monte (Andria), titolata Apparenze e curata da Achille Bonito Oliva. E’ lui a convalidarlo, quando afferma che con le opere di Longobardi “la morte torna in vita attraverso una rappresentazione che sdrammatizza il referto definitivo della scomparsa e ipotizza invece un suo riscatto mediante la sorpresa d’innesti sorprendenti e carichi d’ironia”. Nel tempo, infatti, quella caratteristica decontaminatoria assume forza e chiarezza. Longobardi ne dà configurazioni più lineari, essenziali: si parla, spesso, a proposito di questa nuova via, di “scarnificazione” della fisicità umana e di una sorta di “minimalismo” che via via trasforma i corpi in calchi, contorni, ombre. Scegliendo tale modalità, egli carica ancor di più la sua poetica sulla vita/morte di una napoletanità a più livelli, fatta di comicità e tragicità: si pensi a opere come Hoplà (bronzo e vetro, 2014), in cui uno scuro, ridente teschio fa da poggia-bicchiere; o come Tromba di Eustachio (alluminio e ottone, 2016), con un tromba inserita nell’orecchio di una piccola testa paziente…; e, infine, si guardi  Parafulmine (bronzo e alluminio, 200) in cui uno scheletro nero e quasi inginocchiato sostiene un corpo umano nudo, altrettanto scuro ed essenziale, in un equilibrio prodigioso anche dal punto di vista dell’eros…

La perizia poetica ed estetica dell’autore è grande, nel fare “resuscitar la morte” con “grande pudore” e senza cadere “nel grand guignol”; mostrando  – è Bonito Oliva a avvalorarlo –  “una profonda ironia. E L’ironia, secondo Goethe, è la passione che si libera nel distacco.”

Tutto, qui, e nell’intera produzione di Nino Longobardi, è dolore e risa, introspezione e passione: si cala, cioè, nella coniugazione di sacro e profano, in un misticismo prosaico che se non può pacificare ogni contrapposizione – come forse l’artista vorrebbe –, ne alleggerisce la durezza e sa scovare ovunque e comunque speranza e incanto. Ciò sempre nel segno della metamorfosi, che è caratteristica dell’esistenza sino alla fine, considerata dall’artista con luci ed ombre. E’ singolare appurare, grazie anche a questa mostra tanto ben risolta, come l’artista riesca, con naturalezza e una prassi schiva e al tempo stesso netta, perentoria, a rendere assai leggeri questi gravosi concetti e le stratificate forme che li recano. Per esempio, un enorme, bianchissimo Cristo deposto – con il tronco e parte delle cosce composte ma il resto lasciato “non finito”, solo con l’armatura in metallo a vista –, poggiato sul selciato all’aperto sotto il cielo ottagonale del castello, riesce a dondolare leggermente ad ogni folata di vento. Pesantezza e leggerezza coesistono, dunque – anche in Gazebo di Vincent (ferro, legno e alluminio, 2017) – e il superamento di ogni limite spaziale, ma anche storico, è iniziato: il dado è stato lanciato.

Nella sua arte, suggestiva e coinvolgente, se la memoria è importante, tradotta in materiale visivo fatto di rimandi continui, il tempo e, dunque, anche la Storia sono analizzati e poi congelati; e la biografia è assente perché, piuttosto, sono fatte dominare l’ampiezza e la complessità di una meditazione sull’assoluto, su quanto di più complessivo è possibile evocare. Ciò è reso con colori, creta, carta, metalli, legno, resine, con richiami alle icone e alle reliquie, con gli immancabile teschi e ossa: per palesare l’Uomo e la materia del mondo, in sempiterni movimento e trasmutazione.

Una particolare attenzione la riserviamo alla scelta dello spazio espositivo, che è talmente magnifico e potentemente evocativo da rischiare di risucchiare il contemporaneo nella sua vasta, importante memoria, marginalizzandolo. Non è stato così per alcuna mostra curata da Bonito Oliva in loco e non è accaduto nemmeno per quella di Nino Longobardi. E’ apparsa, anzi, una riprova di una “situazione di equilibrio, conflitto e armistizio tra architettura del passato – esotica ed esoterica – e arte contemporanea”, secondo le parole del critico curatore, che deve aver pensato proprio a questo sito come il più idoneo per far dare tale “ospitalità cordiale” alle opere del suo artista. La mostra, in tale luogo, è esaltata e si dipana, di sala in sala, come di stazione in stazione per un percorso che è pure di conoscenza: come sempre l’arte, anche, è.  Qui, tra oltre venti opere, distribuite tra esterni ed interni nei due livelli del castello, ci fa incontrare Dante e Virglio, poeti (teste in bronzo, 1995 e 1997, in alluminio dipinto, del 2014) un attore tragico (in bronzo, 1997), un profeta (resina e stoffa, 2016), un emblematico Coro bianco (argilla, 1997), e Fibonacci (argilla e ferro, due opere del 2017); tra l’altro, anche un fantastico, struggente omaggio Federico II con il suo ipotetico letto – di morte: forse…  – fatto di strati bianchi di oggetti, stoffe e ossa e titolato Gute Schlafen Federico (argilla, ferro e tessuto, 2017). E pare che respiri, lì dentro, il padrone di casa, che una volta chiusa la mostra, a luci spente e nel silenzio della notte andriese, immaginiamo si materializzi e chiami a sé tutti i lacerti di ossa, i teschi e gli altri personaggi, per danzare alla vita – qualcuno calzando le scarpette da ballerina di Entrechat, 1998 –  e beffarsi della morte. Un teatrino, questo, ipotizzato dallo stesso Achille Bonito Oliva.

L’esperienza che si trae da questa esplorazione, avvistando sculture, installazioni, attori e comprimari, è vagamente mistica, qualcosa che Castel del Monte – Diretto da Alfredo de Biase, pure Direttore di Palazzo Sinesi di Canosa di Puglia, non dimenticando l’apporto del Polo Museale della Puglia Diretto da Fabrizio Vona – aiuta a far lievitare come pasta madre: ne scaturisce un che di fragrante, che attiva la sinestesia: rianima ricordi, rievoca profumi, innesca reminiscenze infantili, mobilita tradizioni popolari e antiche fiabe, sollecita qualche paura ancestrale, riporta in luce benedizioni in casa a Pasqua, celebrazioni religiose dove la processione liturgica si vivacizza per i lazzi di ragazzini e veglie funebri dove inevitabilmente al pianto si sovrapponevano le risa dei bambini, a ricordare che la vita, come la morte, coabitano. Una convivenza nemmeno troppo forzata: è quel che percepiamo in questa – diciamolo – gran bella mostra: la bellezza, nella sua completezza di Forma e Contenuto insieme, nun è peccato!

  • Nino Longobardi. Apparenze
  • A cura di Achille Bonito Oliva
  • La mostra è voluta dal Polo Museale della Puglia in collaborazione con Nova Apulia e coordinata da Dafna Napoli.
  • Dal 23 Aprile 2017 al 31 Ottobre 2017
  • Castel del Monte
  • Strada provinciale 234 17 – Andria
  • Orario: 1 Aprile – 30 Settembre Lunedì – Domenica 10.15 – 19.45 1 Ottobre – 31 Marzo Lunedì – Domenica 9.00 – 18.30
  • Contatti: tel.: +39 0883569997; e-mail: pm-pug.casteldelmonte@beniculturali.it; e telefono: +39 0883 569997 Fax: 08835245540
  • Proprietà: Ente MiBAC
  • Ufficio Stampa: MANUAL comunicazione informazione immaginazione – Paola Marino – paola.manual@gmail.com
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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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