Il primo giorno di ITFestival: assaggi del teatro indipendente che sarà.

Si dice che l’attore sia per propria natura portato all’autocompiacimento. La percezione di chi osserva diventa quindi fondamentale, in particolare quando si rende necessario mettere alla prova progetti nuovi o in costruzione. è soprattutto questa la funzione di ITFestival, ospitato alla Fabbrica del Vapore di Milano. è qui che, prima che il pubblico siano demandate le emozioni del meglio del teatro indipendente, in un lungo fine settimana, il compito è affidato agli operatori. Per due giorni infatti, critici e emissari dei teatri di tutta Italia possono scovare diamanti da sgrezzare, spettacoli giovani e ancora malfermi sulle gambe, embrioni di idee che cercano mani disposte ad accoglierli e crescerli.

Tutto ciò accade nel corso di una rutilante maratona, che ricorda le fiere dedicate da molte città all’editoria, ma che a differenza di queste riescono riescono a garantire un contesto rispettoso e attento.
art a part of culture è presente all’edizione 2017, in cui si possono incontrare progetti diversi e spesso originali. Ad aprire la giornata Cosa ci fanno qui tutte queste donne? Firmato Roberto Traverso ed Evoè!Teatro. Tre donne prigioniere cercano di orientarsi in un luogo privo di tempo e di spazio, di comprendere ciò che stanno vivendo. Sconosciute l’una all’altra, incontrandosi si svelano e si scoprono, emergendo lentamente, tratteggiando i propri segreti nascosti. Le loro parole sono evocative e disorientate, ma sanno giungere a una risposta: sono tre vittime. Vittime di un maschio, di un amore che non è mai stato tale, della voce di un uomo che ancora rievoca la loro nullità Un tema scottante, reso con una messa in scena non scontata a cui è sufficiente una torcia e un piccolo registratore per funzionare, anche se a tratti sconta una recitazione non impeccabile. Per quanto la drammaturgia commetta l’errore di tracciare un’immagine soprattutto maschile senza sfaccettature, glaciale e crudele, è un lavoro cui non manca potenziale che sembra volere lasciare uno spiraglio di luce, nel quale è proprio la ragazza apparentemente più fragile a trovare un possibile coraggio, anche se fuori tempo massimo.

Alla drammatica contemporaneità, segue una lieve e gustosa pagina di storia. Antonella Morassutti, nipote di Dino Buzzati, interpreta un monologo scritto dall’illustre parente nel 1964 e mai messo in scena. La telefonista è un monologo fresco e dai ritmi serrati, in cui una centralinista si destreggia fra il proprio dovere quotidiano e un giovane amato che ha molto da nascondere, nei complessi equilibrismi tra il lavoro e una vita che non aspetta e procede per scossoni e sorprese. L’ambientazione sconta la propria età, ma riesce a far sorridere grazie al valore di un’interprete capace di suscitare la risposta del pubblico anche con gesti piccoli, pur costretta seduta dietro a un tavolo dovendo limitare l’uso delle mani. Si prospetta interessante l’accostamento per antitesi, che la Morassutti prevede per il lavoro compiuto, con La voce umana di Cocteau, drammatico quanto Buzzati è ironico.

Sorprendente e onirico invece La scogliera della Compagnia ZeroDue. In venti minuti le tre interpreti riescono a condensare numerose suggestioni: tre bambine con un controverso e oppressivo rapporto con la religione, che diventerà ragione di vita, in bilico tra misticismo e una trasposizione nel presente quasi dissacrante, dove il sogno del martirio si incarna in una sorta di talent show dove “sante” ragazze scosciate fanno a gara a chi ha la vicenda pi? dolorosa. Ciascuna di queste giovani confuse ha infatti una necessità che non riconosce: farsi guidare da un dogma, alla ricerca di chi le riconosca e offra loro radici e protezione, a qualsiasi costo. Anche lanciarsi coscientemente nella medesima sorte dei lemming, lanciarsi da una scogliera, inconsapevoli. Con una drammaturgia che procede per giustapposizioni talora spiazzanti, con una regia attenta, senz’altro questo ? un lavoro che lascia la curiosità di scoprirlo interamente, negli evocati accostamenti alle sette.

Il confine tra musica e teatro è poi estremamente sottile, a dimostrarlo ci sono le Brugole & Co, che dedicano Rent Party alla memoria di Bessie Smith, la più grande cantante blues di sempre. Oltre a dimostrare un notevolissimo talento musicale, le artiste rielaborano un testo intenso – che indaga le fragilità di alcune indimenticabili interpreti del blues (accanto alla Smith, Janis Joplin) – in una versione apposita per IT, facendo attento uso della comicità caratterizzante della compagnia. In questa messa in scena, malgrado le difficoltà di un contesto pensato per il teatro di prosa piuttosto che per la musica, i mezzi d’arte e i suoi archetipi si incontrano. Non solo le Brugole sperimentano registri e metodi di messa in scena, ma alle blues singer accostano Maria Callas, Medea, e – in un gioco di provocazione e sovrapposizione di piani originale e che non viene mai meno, anche se stesse: le fragilità della “più grande cantante blues che non smetter? mai di cantare” sono le stesse di tutte.

Sul filo di diversi media corre anche Italiani veri, di Irene Serini e Nicola Alberto Orofino: si tratta infatti di uno spettacolo con una genesi insolita: è infatti la realizzazione scenica di un blog, #Italianselfie, mediante il quale negli ultimi tre anni i due autori si sono interrogati sul significato del termine italiani. Strutturato come un divertito e dissacrante racconto del progetto del blog, ironizza sul modo in cui gli italiani si riconoscono – o pi? facilmente, non lo fanno – coinvolgendoli direttamente, anche attraverso interviste che ne fanno una sorta di documentario performato, che analizza col sorriso molte stereotipie e attraverso di esse ci? che sono, o piuttosto, sarebbero, gli “italiani veri”, da Catania a Trieste. Ammesso che ne esistano.

Lavora sui media contemporanei anche Ricordati che mi hai chiamato amore, di Madabò Teatro. L’intero spettacolo è infatti la parabola di un amore che nasce e si consuma attraverso una chat. È sufficiente una scena giocata interamente su due colori, e la scelta di voltare le spalle al pubblico ad ogni battuta, mentre un rumore ossessivo di tamburi rievoca quello delle dita che corrono sui tasti di un pc. Un modo curioso, ancorch? vagamente ripetitivo, per mostrare plasticamente la nostra capacità di comunicare autenticamente ormai ridotta al lumicino, nell’illusione di poterci affidare ai Power Rangers degli emoticon diventati vivi.

A concludere questa prima intensa giornata di ITFestival è Monica Faggiani che, circondata da piccole seggioline rosse da corpo a un apprezzatissimo monologo sul mobbing, ricordando come la violenza (sia essa fisica o psicologica) sul lavoro e quella domestica sono molto spesso connesse. Malgrado scivoli a tratti nella retorica e nella vera e propria didattica (che pure ha una sua indiscutibile utilità) la Faggiani fa sfoggio di talento, ironizzando e suscitando forti emozioni, soprattutto grazie a un vincente espediente scenico: proiettare la propria ombra, enorme come l’angoscia che divora una donna vittima di mobbing, e incorporea. Come può diventare se non trova, anche in teatro, gli strumenti per reagire.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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