57. Biennale di Venezia, Le affinità elettive #4. Germania-Corea-Giappone

Emma Daniel in Anne Imhof, Faust, 2017 Deutscher Pavillon, 57. Internationale Kunstausstellung– La Biennale di Venezia © Fotografie: Nadine Fraczkowski Courtesy: Deutscher Pavillon 2017, die Künstlerin

C’eravamo lasciati con Le affinità elettive#1, #2 e #3 dell’edizione del 2015 e, anche per la 57.Esposizione Internazionale d’Arte, proseguiamo su questa rotta per abbandonarci liberamente a quelle assonanze estetico-concettuali che conducono a personali lontani approdi. Le affinità di quest’anno, oltre a inscriversi in una sorta di triangolo delle Bermuda, pongono in relazione realtà che più lontane è impossibile immaginare, letteralmente come geograficamente. Cosa c’è di più lontano dal composto e minimale (come a tanti è piaciuto definirlo) Padiglione Germania dal kitsch della Repubblica di Corea? E tra la Korea e l’intimistico Giappone? Da sempre posizionati contigui, quest’anno, le opere esposte, hanno creato una forte triangolazione attraverso un sottilissimo fil rouge (uno tra i numerosi fili che ha voluto concretamente proporre Christine Macel, nella rassicurante e femminile mostra internazionale Viva Arte Viva, tanto da dedicargli un intero trans-padiglione, Padiglione dello Spazio Comune allocato all’inizio dell’Arsenale) che li sistema in una impalpabile relazione e intima conversazione tramite due elementi: il tempo e la rivoluzione.

Di cos’altro ha bisogno, infatti, lo spettatore del Padiglione Germania, se non del tempo, per assistere al Faust di Anne Imhof, che meritatamente si è vista assegnare il Leone d’Oro? Lo stesso Goethe lavorò alla monumentale opera per oltre sessant’anni facendo divenire il famigerato Doktor simbolo dell’uomo moderno, pronto a vendere la propria anima per ottenere personali risultati: Gray per l’eterna giovinezza, Faust per la conoscenza e il potere, attraverso il piacere e la bellezza. È la seconda volta che la Germania presenta un padiglione senza opera, senza il feticcio dell’oggetto (l’immediato precedente è l’accattivante e martellante This is so contemporary del 2005 di Tino Sehgal): entrambe le volte, gli artisti mettono di fronte il visitatore a situazioni insolite e surreali. Attingendo a piene mani dalla cultura tedesca (tra cui quella underground che, per la Germania, non ha lo stesso significato delle scimmiottesche imitazioni nostrane, fatte più per moda o provocazione, ma impregna trasversalmente le diverse forme culturali tedesche, Christiana F. insegna), la protratta, ipnotica e coinvolgente/sconvolgente performance (poco meno di cinque ore, il cui inizio non ha un orario non prestabilito) orchestrata dalla Imhof, assurge significato universale. Azioni di una delicatezza sconfinata subito contraddette da gesti brutali, in un continuo ribaltamento dei ruoli (sociali? sentimentali? di potere? sessuali? economici?). Il pieno controllo del corpo, attuato dal gruppo di performer (Franziska Aigner, Billy Bultheel, Emma Daniel, Eliza Douglas, Josh Johnson, Frances Chiaverini, Mickey Mahar, Lea Welsh), di cui la Imhof solitamente si avvale, alterna momenti concitati e confusi a perfetti e equilibrati atti bloccati come dei fermoimmagine, possenti tableaux vivant che riempiono tutto lo spazio del Padiglione con la loro forza. Forza a cui il visitatore non può sottrarsi allorquando gli occhi dei performer, da vitrei e distanti, vagano e puntano il loro sguardo su quelli del pubblico. A quel punto lo spettatore è intrappolato: sostenere lo sguardo? Andare via? Abbassare gli occhi? Un finto-vuoto che si riempie, durante la coreografica performance, di un’equilibrata sequenza musicale, che si intervalla al silenzio o al canto gutturale e sommesso di Franziska Aigner e Eliza Douglas. Corpi androgini, emaciati o muscolosi, che sembrano voler abbattere il condizionante senso della distinzione per sesso e, conseguentemente, per categorie, strette, limitanti e condizionanti: ogni persona ha importanza per quello che è, per il essere vivente.

E qual è il tempo di ciascuno di noi individuato da Lee Wan nel Padiglione Corea? È un tempo puntualmente calcolato da una formula matematica magistralmente sviluppata e tradotta nella straordinaria installazione Proper Time. Un’intera stanza, cui si accede attraverso una sottodimensionata porta, che sembra fare un po’ il verso a quella tramite la quale Alice, alla fine del lungo salto nel vuoto, abbassandosi, si introdusse nella stanza del Signor Serratura che le permise poi di entrare nel Paese delle Meraviglie. Ed è quello che accade al visitatore una volta entrato nel piccolo vano alzando la testa. Si ritrova in una sorta di stanza della meraviglia, con le pareti bianche totalmente ricoperte di orologi bianchi con lancette nere delle che segnano tutti orari diversi e quella rossa dei secondi con un andamento irregolare. Le ore sono quelle di Juan Dela Cruz (1980, Undergraduate Student Management, Philippines), di Junaid Ahmad (1994, Accountant, Pakistan), di Y (1967, Home Remedie Therapist, Sweden), di James (1978, Owner & Founder, Sweden), di Brent (1986, Site Spervisor, South Africa), e così via. Una stanza silenziosa, che ti immerge in una dimensione atemporale, che ti inchioda a leggere i nomi, la professione, le diverse nazionalità, a rileggere così una geografia che non ha confini, a restituire attenzione all’altro, alla sua essenza, a quella peculiarità biologica-fisica-caratteriale che delinea la singolarità di ciascuna persona importante per la sua unicità: ha materialmente tradotto e realizzato il personale orologio biologico dell’essere umano. Non sono più gli orologi deformi di Dalì, né i due orologi affiancati e sincronizzati di Felix Gonzales Torres (Untitled/Perfect lovers, 1991). Né i 600 orologi digitali tutti sincronizzati sulla stessa ora di Darren Almon (Tide, 2008). Né i 1000 orologi che perdono i numeri delle ore di Cildo Meireles (Fontes, 2008).

Quanto tempo occorre a Takahiro Iwasaki nel Padiglione Giappone per trasformare alcuni inusuali materiali (setole degli spazzolini di denti, fili di cotone prelevati da asciugamani, nastro adesivo) nelle delicate sculture alcune delle quali fluttuano (templi in legno di cipresso) nello spazio, e riproducono manufatti architettonici o aree industriali dello scorso secolo? Opere che rimandano a un tempo sospeso, a un tempo senza tempo. Quel tempo compromesso, che sembra avere una scadenza, per la mancanza di cura che l’uomo ha dell’ambiente, di cui continuamente compromette l’equilibrio.

Mentre Iwasaki lo dichiara nel titolo Turned Upside Down, It’s a Forest (i tempi creano un riflesso di se stessi su uno specchio d’acqua inesistente, oppure il foro nel pavimento consente da fuori di vedere dentro) cos’altro è, se non un mondo capovolto, quello allestito dalla Imhof? Il visitatore cammina sopra un pavimento sospeso (le passerelle dell’acqua alta?) sotto il quale si svolgono numerose azioni dei performer. Il visitatore è lì, ma intorno, sotto, in alto o fuori, si dispiegano azioni: la vita scorre e noi possiamo accorgercene oppure ignorarne gli accadimenti, idealmente protetti da una coppia di Doberman (senza le mefistofeliche orecchie appuntite e con la riccioluta coda, dettagli che sottraggono questi cani dall’immaginario spaventoso cui sono abitualmente associati), tenuti all’interno del recinto metallico che circonda il Padiglione, insolitamente pronti a giocare al minimo accenno. E così, un padiglione che sembra apparentemente vuoto, atemporale, è colmato da una complessa architettura di lastre di vetro tenute da profili di acciaio, che creano pavimenti, pareti, piedistalli, sporgenze, dove dietro, sotto, sopra si svolgono le azioni: una casa di cristallo, dentro cui siamo chiamati ad entrare, che ci pone in una dimensione di impotenza e di ingannevole precarietà. Possiamo fare ben poco: restare o andare. Molti hanno preferito andare via, per la gelida atmosfera, o per il nulla esposto, o per l’inquietudine trasmessa dalla struttura, una sorta di squadrata trumaniana boule-de-neige dentro la quale i ruoli (performer/visitatore) sono messi in discussione e di continuo ribaltati. Un mondo, quello di sotto, che pullula di una vita accennata e raccontata da specifici oggetti (saponette, asciugamani, ciotole per animali, cotone idrofilo, alcool, alcool etilico, uova, cavi elettrici) che forniscono precisi dettagli di una normalità, per alcuni distorta. Ma i possibili Michel Ardan, Barbicane e Nicholl di Sans dessus dessous (Jules Verne, 1889) non sembrano affatto voler raddrizzare l’asse terrestre, ma invitare a prenderne atto: il mondo è questo ma è anche quello, e i due mondi possono convivere, perché in fondo ognuno è lo specchio dell’altro.

Non è infatti una rivoluzione, il ribaltamento dello scorrere sincronico del tempo, sviluppato da Wan? Quel mondo di sotto che, mediante un foro, entra per pochi attimi in contatto con quello di sopra di Iwasaki? Facciamo capolino, un po’ come Maurizio Cattelan (Untitled, 2001), ma non in una sala museale, bensì in uno scenario industriale, devastante e devastato, nero come il petrolio, il “vecchio sporco imbroglio”. Che in parte ricorda lo spiazzamento che si avverte nell’opera Where is our place di Ilya & Emilia Kabakov del 2003. Tre padiglioni che sembrano anche dirci: quali sono il mondo e il tempo reali? Quali hanno veramente valore e importanza e quali pura illusione? Lapalissiana la fondamentale distanza esistente tra questa triade e altri padiglioni, come ad esempio quello del Cile (con Werken di Bernardo Oyarzùn, una suggestiva installazione di maschere cerimoniali realizzate dagli indigeni Mapuche, arricchita da led che riportano circa 7000 cognomi di Mapuche). O dell’Argentina (con l’imponente installazione The Horse Problem di Claudia Fontes). O dell’Uruguay (con la lignea installazione La ley del embudo di Mario Sagradini). Finanche Italia. La terna del triangolo tocca idee e tematiche valide in ogni angolo del mondo, che non implicano la conoscenza specifica di una particolare cultura o usanza, perché i dolori sono sempre quelli del giovane Holden, attraverso i quali, in ogni personale processo di trasformazione e maturazione, tutti attraversano.

 

Info mostra

  • 57.Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia
  • Affinità elettive #4 | Germania-Corea-Giappone
  • Venezia – Giardini
  • Periodo: 13 maggio – 26 novembre 2017
  • Orario: 10.00 – 18.00 / 10.00 – 20.00 sede Arsenale – venerdì e sabato fino al 30 settembre; chiuso il lunedì
  • Ingresso: 48h Intero € 30; Intero Regular € 25 (valido per un solo ingresso per ciascuna sede utilizzabile anche in giorni non consecutivi); Permanent Pass € 80
  • Info: tel. 041 5218 828 – fax 041 5218 732 (lun > ven 10-13.30 e 14.30-17:30; sab 10-13.30) www.labiennale.org

 

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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