Azioni e tracce di (una) Vita. Fotografie e storie di Galeazzo Nardini. Con Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni

Cataloghi, ciascuno con stampa autografata

A certi (pre)potenti con governi più o meno al giunzaglio sembra che basti un pretesto più o meno consistente per ricorrere ad armamenti più o meno legittimi gettando il pianeta in un’ansia da guerra fredda, e che fredda tutt’al più resti. Invece, e per fortuna, esistono talenti come il compianto Galeazzo Nardini che partono da qualunque pretesto più o meno ordinario sottopostogli dalla realtà per farne occasione d’arte come riflessione sugli infiniti scampoli della vita.

Cataloghi, ciascuno con stampa autografata

Il mondo è un’opera d’arte in divenire” era una sua decisa convinzione (nonché, non a caso, il titolo di una sua mostra del 1974 curata da Achille Bonito Oliva), e ci pare che, partendo forse da un suo profile non da dandy ma “normale” (termine che nessuno ha mai troppa voglia di spiegare), come testimoniato da certe foto di suoi documenti personali da giovane, lo abbia ricordato bene una mostra fotografica da Interzone dello scorso aprile 2017 (meglio rispetto a una semplice retrospettiva).

Va assolutamente ricordato, per illustrare la matrice sociologico-filosofica della ricerca dell’artista, che Nardini studiò sia all’Accademia di Belle arti di Firenze, dove iniziò a produrre opere di pittura tradizionale e già però – è scritto sul suo sito – “senza saperlo, facevo di tanto in tanto performances”, sia all’École Pratique des Hautes Études per seguire i corsi di Sciences Economiques et Sociales VI Section, sia, alla Sorbona, quelli di Sociologia dell’Arte.

Certe metodologie di stampo situazionista, che producevano sotto le mani di Galeazzo Nardini spunti visivi e performances come se piovesse, sono state il tipico strumento di uno spirito antagonista e forse un po’ guascone che, con un solido background accademico ma al contempo con mezzi semplici, quasi giocosi ma anche provocatori, insistevano sugli aspetti minimi ma irripetibili e sui residui latamente romantici o artificiosamente (de)costruenti di questa realtà così sfuggente eppure così condizionante. Quest’ultima, nella sua dimensione sociale è in buona parte infatti determinata da costruzioni (si veda il celebre saggio di Berger e Luckmann) e da convenzioni (si ricordi l’analisi delle conversazioni condotta da Garfinkel). Orbene, quando un artista del genere, anzi diciamo proprio Nardini, viene a mancare com’è successo in un triste giorno di fine marzo 2016, è necessario, in senso filosofico, che la sua capillare azione di focalizzazione sul caleidoscopio dell’umano-artistico venga protetta e tramandata costituendo un archivio a suo nome e mantenendolo vivo grazie all’ammirazione del pubblico più attento, sensibile e ricettivo. Questo è accaduto per Galeazzo Nardini grazie in primo luogo alla figlia Helène: ciò già dimostra abbastanza come la frase “nulla è eterno”, se non altro in quanto espressione abituale, trovi nel mondo dell’arte, e nel campo della performance in particolare, chi cerca di contraddirla con cura e amore inesausti a dispetto della impalpabilità di certe forme creative.

Ed ecco dunque che, per esempio, nella citata mostra intolata G A L E A Z Z O | NARDINI, Caimi & Piccinni, due fotografi (Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni), uniti da una passione comune dalle molte facce e da un legame di vassallaggio reciproco – e coadiuvati dal curatore Michele Corleone –, hanno scartabellato, frugato e quindi scovato, toccato e annusato una quantità di reperti stratificati nell’inevitabile polvere e riportato a nuova vita i frutti di una mente tanto singolare e mappato fotograficamente la casa e immortalato amici e familiari dell’artista, impegnandosi quindi nell’incrementare l’eternità di certi interventi di Nardini, a volte minimi, ma concettualmente geniali e decisivi in misura e maniera deliziose, attraverso la fotografia e la stampa come punto fermo ma anche moneta scambiabile più o meno nuda, più o meno cruda, più o meno caduca, di valori superiori, di passaggi di luce e ombra attorno alla persona e alle opere di questo artista ancora in questo modo presente. Sono dunque fotografie, alcune originali di Nardini, altre che reinterpretano, raccontano il racconto come fotografie-omaggio discrezionali in qualche misura, quelle che vanno a catturare e tramandare lo spirito e l’aura (termine benjaminiano sempre attuale ed incisivo) di opere e performances già di natura volatili e/o minimali di Galeazzo Nardini. Eppure, a dispetto di questa leggerezza che compone a volte una graziosa rima con la gratuità, queste opere, e forse ancor più una certa prassi creativa, intrattengono un legame strettissmo con qualcosa che nella sua palpabilità minuta ha però un suo pondus (da cui “ponderare”): il pensiero. E questo, nella raccolta di immagini prodotte dai tre talenti, fluisce e si rimanda libero eppure compenetrato nelle forme in gioco, aprendosi ad un altrove votato alla dimensione collettiva anche se formato da una miriade di opere ognuna col suo privatissimo motivo di essere conservata lì dov’è stata trovata, “in quella posizione, come un’installazione vivente”, scrive Helène nel ricco e affascinante catalogo della mostra, che può essere godibilissimo anche ad esposizone chiusa da tempo.

Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni, da lei convocati dopo sospirata decisione, malgrado non si fossero mai cimentati in un’operazione smile, hanno compiuto col loro sguardo autoriale un lavoro mirabile di confronto serrato con l’opera e gli echi ancora palpitanti di una vita che non sembrava spenta quando loro due si sono immersi nella casa-studio di Galeazzo (Pescia 1938, Massa e Cozzile 2016). Per più di cinquant’anni quel luogo era stato la base operativa da cui partiva e si dipanava la ricerca dell’artista, l’Arte e la Vita in un mix inestricabile sparso a piene mani in materiali perfettamente ordinati. La ricchezza malinconica di un alveo in cui pullulano le tracce e i segni di una vita che già nel suo scorrere era stata sustanziata da ed intrecciata al fare artistico dev’essere sembrato al primo impatto ai due fotografi “un dedalo carico di risonanze”, da cui attingere rappresentava un’operazione sia emozionale, e persino toccante, sia stimolante intellettualmente nella ricerca di una giusta sintonia tra le diverse visioni di tre paia d’occhi diversi.

Ed il risultato è sorprendentemente – o forse no, data la qualità degli interpreti – organico, offrendo ai materiali, ai documenti e alle immagini d’affezione di Nardini un flusso in espansione in cui essi possono declinarsi in un dialogo di interpretazioni intense della vita, di una vita e dell’arte che l’abitava e che ora compone una sorta di film in uno spazio diverso.

«(…) È materiale stratificato di pensieri, di polvere, di momenti di vita personale e collettiva, materiale che si porta dentro la storia di una persona e del suo mondo…» 

Vita e arte, quelle di Nardini, tanto strettamente legate quanto più si considera che a partire dal 1976 iniziò, come forma di protesta contro la commercializzazione dell’arte ed il disimpegno sociale, Arte Sciopero, proseguendo questa dura risposta per quarant’anni ma senza mai smettere di realizzare opere sino al 2016, anno della sua scomparsa, continuando quindi a produrre con ossessiva coerenza, non per il mercato o per il sistema (scelta che gli comportò naturalmente diversi fastidi nel mondo reale delle bollette e degli affitti), ma solo in nome del potente binomio succitato, opere che quindi erano manifestamente legate alla sua esistenza come necessità e destino e alla sua indole gentile, di persona amata in cui in molti ravvisavano la curiosità urlata del bambino che freme ancora in molti adulti, anche se solo di tanto in tanto (come osserva sull’onda dei ricordi Michael Pergolani in uno dei testi sul catalogo). Anche le reazioni di Helène bambina, che sentiva di essere più incuriosita da quei grandi che giocavano come bambini che dai suoi coetanei che imitavano i grandi, venivano prontamente catalogate dal padre come “parte della performance”, per lo stupore della piccola. Quel padre che in una foto sembra prendere simbolicamente l’aspetto di un grande albero secolare sorgente di vita a cui la figlia si appoggia amorevolmente, filmava e fotografava di tutto, affidando a chi lo seguiva l’idea di un mondo intero come opera d’arte in progress, che tutti stiamo costruendo secondo le nostre possibilità.

Ed ecco allora, grazie all’intervento partecipe di Caimi e Piccinni, tutta il vasto, sorprendente e vitale profluvio di fotografie originali, sequenze di immagini di performance, peel-apart bianconero e polaroid conservate con il loro negativo incrostato, fotocopie di fotografie manipolate, provini a contatto in bianconero, Super8 stampati e poi arricchiti di interventi colorati, tantissimi provini a contatto, e oggetti e frammenti che compongono un ricco e unico panorama visivo.

Galeazzo Nardini iniziò la sua produzione artistica a vent’anni come pittore, performer (nonché ciclista ed esperto di pietre preziose, sul piano degli interessi personali, anch’essi indicativi con la loro poeticità intrinseca), e partecipò attivamente al panorama artistico internazionale dagli anni ’70, collaborando con molti autori noti di quella stagione ma soprattutto, oltre la produzione artistica, attivandosi come autopromotore, autoesponendosi al Louvre nel ’73 e agli Uffizi, e come promotore artistico, tra l’altro organizzatore del serissimo convegno Critica 1: L’arte da chi a chi, a cui parteciparono alcuni tra i maggiori flosofi, critici e semiologi europei, come Jean-Christophe Ammann, Eugenio Battisti, Gillo Dorfles, Umberto Eco, Pierre Restany e Pier Luigi Tazzi, nel cui ambito si tenne la serata di performance “Supermegaiperdada” durante la quale Galeazzo si fece operare in pubblico.

Quest’ultima performance è documentata in mostra da alcune immagini in cui si scorgono manifesti del convegno affissi su porte della sua abitazione, e dalla foto che invece mostra chiaramente Galeazzo steso su un lettino mentre si sottopone al “chirurgo” di fronte al pubblico, anticipando con la sua asportazione di una cisti grande come una nocciola la ricerca di una artista come Orlan (la francese iniziò a modificare chirurgicamente il suo aspetto nel 1986), alla luce di una riflessione sulla coincidenza di hic et nunc e concentrazione di sentire ed agire, col risultato di gesti carichi di Essere in ogni momento, con la coscienza che, non troppo diversamente da ciò che riguarda un vero chirurgo, un’operato performativo di questo genere richiede anch’esso precisione e serietà perché può salvare la “Vita” (da una riflessione di Helène Nardini). Appoggiò anche campagne artistico-civili, come la collaborazione con la rivista satirica “Il Male” contro le braghe censorie apposte sul Giudizio Universale, e non disdegnò certi approdi un po’ pop come le apparizioni da inviato a Londra, insieme a Michael Pergolani, nella trasmissione di Arbore “L’altra domenica”.

Ma ancora più decisiva ed emblematica appare da parte sua la costituzione, durante il suo Arte Scopero”, dell’Università Utopica, nata dall’indignazione per la manipolazione dell’informazione  da parte dei mercenari del linguaggio e concepita come risposta animata quindi dallo spirito di sopravvivenza artistico-morale, spinta da istanze etiche, per amor di verità; si poneva come “il non-luogo dove le utopiche esigenze degli artisti vengono formulate”, un territorio “ubiquitopico” in cui l’utopia poteva essere realizzata in “Utopiapratica”, un ambiente ideale in cui, anziché bloccarsi in ruoli rigidi come maestri ed allievi, “si apprende ed insegna alternatvamente”. Ed il carattere ubiquo del rivoluzionario Ateneo è provato dai suoi spostamenti di sede: dalla gallera d’arte m3 151 Spazio Alternative 2 di Montecatini Terme, ai pochi centimetri cubici di una casella postale sempre a Montecatini, fino al 2001, sino all’approdo sul web.

Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni iniziano la loro collaborazione nel 2013 affrontando alcune delle maggiori tematiche contemporanee: dalla guerra in Ucraina ai pellegrinaggi religiosi, dalla crisi migratoria a problematiche ambientali, dalla vita quotidiana nei quartieri malfamati di Napoli alla devastante infezione batterica che sta distruggendo gli uliveti in Puglia. I loro reportages sono regolarmente pubblicati sui media nazionali ed internazionali, Hanno all’attivo tre libri Daily Bread (T&G Publishing), Same Tense e Forcella (Witty Kiwi Books).

In questo caso, in questo insolito lavoro a sei occhi, ancora più di quanto non capiti abitualmente nel loro lavoro di racconto per immagini, si sono ritrovati ad affrontare l’inconscio, perché raccontare una persona attraverso la sua casa può essere il corrispettivo da fotografo dello scandaglio operato da uno psicanalista sui sogni del cliente in trattamento. La casa è infatti un contenitore intimo delle tracce di una vita, versione materiale e fisicamente espansa della memoria umana, e all’interno di essa ogni collocazione trova il suo perché, in un linguaggio non verbale né tantomeno scritto e tuttavia molto chiaro anche se non necessaramente razionale ma piuttosto elaborato in una rete di fitte simbologie pubbliche e private, di rara e in questo caso non fltrata potenza, che con un nuovo, doppio, “passaggio” fotografico hanno potuto essere ascoltate e riverberate ancora.

Oggi Caimi e Piccinni ammettono che sì, il loro incontro con Galezzo Nardini è avvenuto a posteriori, in assenza, ma solo fisica, perché la loro immersione nel vorticoso universo delle tracce delle azioni che lui portò avanti è stata tale che “per noi è stato come sedersi con lui al tavolo e averlo ascoltato bevendo vino e guardandolo negli occhi”.

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il7 - Marco Settembre, laureato cum laude in Sociologia ad indirizzo comunicazione con una tesi su cinema sperimentale e videoarte, accanto all'attività giornalistica da pubblicista (arte, musica, cinema) mantiene pervicacemente la sua dimensione da artistoide, come documentato negli anni dal suo impegno nella pittura (decennale), nella grafica pubblicitaria, nella videoarte, nella fotografia (fa parte delle scuderie della Galleria Gallerati). Nel 1997 è risultato tra i vincitori del concorso comunale L'Arte a Roma e perciò potè presentare una videoinstallazione post-apocalittica nei locali dell'ex mattatoio di Testaccio; da allora alcuni suoi video sono nell'archivio del MACRO di Via Reggio Emilia. Come scrittore, ha pubblicato il libro fotografico "Esterno, giorno" (Edilet, 2011), l'antologia avantpop "Elucubrazioni a buffo!" (Edilet, 2015) e "Ritorno A Locus Solus" (Le Edizioni del Collage di 'Patafisica, 2018). Dal 2017 è Di-Rettore del Decollàge romano di 'Patafisica. Ha pubblicato anche alcuni scritti "obliqui" nel Catalogo del Loverismo (I e II) intorno al 2011, sei racconti nell'antologia "Racconti di Traslochi ad Arte" (Associazione Traslochi ad Arte e Ilmiolibro.it, 2012), uno nell'antologia "Oltre il confine", sul tema delle migrazioni (Prospero Editore, 2019) ed un contributo saggistico su Alfred Jarry nel "13° Quaderno di 'Patafisica". È presente con un'anteprima del suo romanzo sperimentale Progetto NO all'interno del numero 7 della rivista italo-americana di cultura underground NIGHT Italia di Marco Fioramanti. Il fantascientifico, grottesco e cyberpunk Progetto NO, presentato da il7 già in diversi readings performativi e classificatosi 2° al concorso MArte Live sezione letteratura, nel 2010, è in corso di revisione; sarà un volume di più di 500 pagine. Collabora con la galleria Ospizio Giovani Artisti, presso cui ha partecipato a sei mostre esponendo ogni volta una sua opera fotografica a tema correlata all'episodio tratto dal suo Progetto NO che contestualmente legge nel suo rituale reading performativo delle 7 di sera, al vernissage della mostra. ll il7 ha quasi pronti altri due romanzi ed una nuova antologia. Ha fatto suo il motto gramsciano "pessimismo della ragione e ottimismo della volontà", ed ha un profilo da outsider discreto!

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